Nell’industria dei grandi portafogli, a fronte di una crescita modesta delle masse gestite, la redditività è in calo. Si assiste, in altre parole, a ricavi da commissioni e risultati operativi da stabili a poco soddisfacenti mentre l’utile netto si rivela più volatile perché risponde a logiche diverse e fa riferimento ai bilanci. 
Per questo si punta tutto sulla consulenza e sui clienti di fascia alta o altissima, anche per crescere nel prestigio, oltre che nelle masse. Si assiste dunque a un certo riposizionamento di alcuni gruppi internazionali, sulla spinta al rinnovamento che arriva dal fronte regolamentare e sulla ricerca di asset class alternative da parte dei clienti, a fronte del fiato corto evidenziato dall’azionario e dall’obbligazionario. Così le svizzere Ubs e Crédit Suisse insistono su nuovi modelli operativi e sulla rivoluzione digitale, puntando sempre di più su una fitta rete di relazioni per conquistare i milionari di tutto il mondo. E, mentre la prima ha sviluppato un vero e proprio family office, la seconda si prepara a nuovi investimenti strategici in Italia, con l’assunzione di nuovi professionisti per rafforzarsi nel segmento della clientela high net worth e ultra high. Se dunque da un lato, tra attività di recruiting, back office e tecnologia, i costi aumentano, dall’altro i ricavi diminuiscono a causa di commissioni di performance sempre più risicate e di un contesto di mercato non certo favorevole. 
I tassi sono a zero, la volatilità altissima, i soldi rendono piuttosto poco e la guerra delle valute non aiuta. Questo sta portando a una vera e propria polarizzazione dell’industria. Da una parte c’è il modello a rete, daAzimut a BancaGenerali eMediolanum, di provenienza mista e indipendente, che mentre copre la fascia medio bassa della clientela attraverso i promotori finanziari, punta sempre più a costituire divisioni dedicate ai grossi portafogli per raccogliere utili. Dall’altra c’è quello integrato dei grandi player internazionali, a cominciare dagli svizzeri, e delle grandi banche. Ecco che Intesa Sanpaolo, forse con un po’ di ritardo, sta riunendo tutto sotto lo stesso cappello. Lo sa bene Carlo Messina, consigliere delegato di Intesa Sanpaolo, quando afferma: «ci interessa crescere nel private banking, nell’asset management, nelle assicurazioni. La condizione, per il primo come per il secondo, è mantenere il controllo delle attività». Anche Ubi Banca, con la costituzione di Ubi Private&Corporate Unity, ha sviluppato un nuovo modello di advisory integrato che unisce i mercati private, corporate e investment banking. E lo stesso dicasi per Deutsche Bank. Del resto, il guadagno di questi player viene per l’85-90% dalla consulenza, che quindi va estesa alla protezione del patrimonio a tutto tondo, dalla struttura di gestione e controllo degli asset, alla family governance, dalla corporate governance, alla pianificazione successoria fino a self caring e filantropia. Secondo l’Aipb, se ci si domanda quale sia il trend delle quote di mercato, la ricchezza finanziaria delle famiglie private italiane si divide oggi in 473 mld presso le banche private, 78 mld sono gli asset private detenuti dalla promozione finanziaria e 385 mld vengono gestiti dalle banche retail senza un modello di servizio dedicato. Rispetto al 2012, con una ricchezza delle famiglie stimata in crescita dell’1,5% per effetto flusso e del 3,6% per effetto performance, gli stock del pb sono saliti del 8%, quelli della promozione private dell’1% e quelli del retail sono rimasti uguali. Questo significa che la quota di mercato del pb è salita dell’1,9%, quella della promozione è scesa dello 0,2% e quella del retail è diminuita dell’1,7%. Se questo è il trend delle quote di mercato, la competizione tra sistemi distributivi genera pronostici su quale sarà lo scenario futuro e qualcuno azzarda perfino l’elenco dei vincitori e dei vinti. «In realtà continuano a esserci due scenari possibili: da una parte la convergenza degli operatori su forme ibride che non derivino dalla somma ma dalla sintesi degli elementi migliori dei modelli attuali, dall’altra un’enfatizzazione delle componenti evolute del servizio dedicato a clienti che hanno in comune lo stesso problema da risolvere, non pari ricchezza», spiega Simona Maggi, direttore scientifico Aipb. Questo perché crescere nel settore non è più solo una questione di raccolta netta o di ampiezza dell’asset mix o di tipologia di banker conquistabili, bensì di redditività del servizio erogato. La verità è che stanno cambiando le fonti di ricavo. Fino a pochi anni fa gli utili arrivavano in gran parte dalla negoziazione titoli per conto dei clienti con la conseguenza che più si muovevano i portafogli, più la banca guadagnava. «Oggi invece il pb ricava in media il 33% dall’operatività per il cliente e il 67% per la capacità di selezionare e consigliare. Per alcuni, gran parte dei guadagni arrivano già dalle commissioni di gestione e di consulenza. Insomma c’è chi, guadagnando sul consiglio che dà al cliente e non sull’operatività, riesce a generare ricavi che gli permettono di assumere un ruolo importante nella pianificazione bancaria per la solidità del sistema, che deve continuare ad affrontare alti livelli di volatilità», conclude la Maggi.

 

Tecnologia e consulenza

Lo scorso mese di ottobre ci sono state importanti novità per Banca Fideuram e Eurizon, entrambe del gruppo Intesa Sanpaolo. Matteo Colafrancesco, ad e dg di Banca Fideuram, sarà il nuovo responsabile della divisione private banking ma la responsabilità, dal 1° luglio 2015, passerà a Paolo Molesini, oggi numero uno di Intesa Sanpaolo pb. Il mercato italiano dei grandi portafogli è in via di trasformazione. Crédit Suisse, si sta preparando al cambiamento creando sempre più connessioni all’interno della banca. A ottobre, poi, c’è stato l’acquisto del ramo di private banker da Crédit Suisse da Banca Generali che ha rappresentato una delle operazioni più importanti nel settore del wealth management italiano nell’anno. L’operazione ha coinvolto 50 professionisti per 1,9 miliardi di euro di masse per un importo complessivo di 45 milioni, inferiore di 5 milioni rispetto a quanto preventivato. A oggi il 60% dei clienti a livello globale del gruppo elvetico è ultra high net worth, ossia con una ricchezza totale superiore ai 250 milioni di dollari e un patrimonio finanziario dell’ordine dei 50 milioni di dollari. Un tipo di clientela a cui non basta la costruzione di un portafoglio finanziario. «I clienti di questo tipo hanno bisogno di essere seguiti in team e chiedono una gestione complessa che permetta di individuare le loro esigenze e le possibili soluzioni sia per quanto riguarda il patrimonio finanziario sia per quanto riguarda la loro impresa. I temi sono quelli della governance aziendale, del passaggio generazionale e della struttura di capitale dell’impresa. Temi che richiedono competenze non solo in materia di investimenti ma anche di consulenza corporate. D’altronde nella maggior parte dei casi i clienti italiani di fascia alta sono imprenditori orientati a concentrare gran parte della loro ricchezza negli asset dell’azienda di famiglia e in immobili, tradizionalmente considerati bene rifugio dagli italiani. Ma la gestione finanziaria è solo una delle componenti del servizio che offrono. Da qui la scelta di reclutare anche figure che vengono dalle grandi società di consulenza aziendale o dall’investment banking, che hanno quindi le competenze per fare anche advisory legata all’azienda. Una tendenza che continuerà. (riproduzione riservata)