di Francesca Vercesi
Nel portafoglio dei Paperoni prevale il basso rischio. Molti bond (spesso fondi di case prodotto straniere) e poche azioni. Ma si fa strada un maggiore appetito per strumenti collegati all’economia reale. Come i fondi di private equity. Del resto, nella gestione delle finanze degli italiani facoltosi, le priorità sono sempre le stesse: protezione del capitale, governance familiare, gestione del passaggio generazionale.
Per quest’ultima, per esempio, molti imprenditori ricorrevano al trust, in presenza di quote societarie o vincoli di altra natura. Ma negli ultimi tempi sono molto apprezzate le polizze unit linked, che investono in fondi. Soluzione che permette di diversificare anche sulle azioni con in più i vantaggi dati dalle polizze. Oltre a rendere il portafoglio esente da tasse di successione, non sequestrabile e non pignorabile. La maggior parte della clientela è su asset a reddito, mentre chi è più propenso al rischio sceglie gestioni flessibili o total return. Altro aspetto emerso nel 2013 è la perdita di consenso verso l’investimento immobiliare. Nell’asset allocation si predilige, in altre parole, la finanza, visto che buona parte dei 40-50enni non ha entrate sufficienti a mantenere grandi proprietà immobiliari e infatti o le vende o cerca soluzioni alternative. Secondo l’Associazione italiana private banking, quanto accaduto negli ultimi tre anni è un mutamento epocale per gli italiani, affezionati come sono al mattone. Complice la crisi e la scure del Fisco, da asset class prevalente all’interno del patrimonio familiare, con il 44% del totale nel 2010, l’immobiliare è calato nel 2013 al 39%. Il suo posto è stato preso proprio dalla finanza, circa il 44% del totale. «Nel 2013 investitori avversi al rischio ma desiderosi di profittare delle potenzialità dei mercati hanno scelto strategie a ritorno assoluto come quelle long-short su fondi azionarie obbligazionari. Strategie che condividono la ricerca del rendimento assoluto e della protezione del capitale», commenta Alessandro Aspesi, country head Italia di Threadneedle Investments. Intanto, sale ancora il peso delle reti di promotori (già da anni a caccia dei gestori migliori) nel mercato italiano del private banking e a ingrossarne le fila ci si sono messe pure le banche. Queste ultime, nel rivedere i modelli di business stanno riscoprendo la promozione finanziaria. Mentre continuano a diminuire i bancari: dal 2000 a oggi hanno lasciato gli istituti di credito 48 mila persone, e McKinsey stima tra gli 11 mila e i 13 mila il numero di sportelli bancari che dovrebbero chiudere nei prossimi tre-cinque anni. Si assiste dunque a due fenomeni. Da un lato, una decisa crescita delle reti di promotori presso la clientela private. «È un dato oggettivo che va considerato, sono professionisti capaci che usano buone piattaforme», precisa Fabrizio Greco, dg di Ersel. Che aggiunge: «Inoltre i dipendenti bancari con stipendi fissi contenuti e bonus limitati cercano di capire se ci sono altrove prospettive diverse, e si rivolgono al mercato. Oggi in effetti le offerte più interessanti vengono dalla promozione finanziaria. È più attraente una rete che mette sul tavolo un incentivo all’ingresso come premio di portafoglio. Del resto, le private bank indipendenti non possono competere su quel terreno perché i costi fissi sono alti, non possono pagare premi di portafoglio simili a quelli delle reti». Dunque accade che, per far fronte alla concorrenza dei promotori, le banche cercano i fondi più brillanti tra le società che non hanno deluso nella crisi di maggio-giugno scorsi. Il fenomeno è partito proprio nel private banking. Le banche dei Paperoni, in altre parole, hanno cominciato ad aprirsi ai prodotti di terzi. Ma se in una prima fase le private bank hanno puntato sui grandi marchi dell’asset management internazionale, oggi l’attenzione è rivolta anche alle performance dei fondi più di nicchia.
E ora molte case di gestione stanno spingendo gli investimenti azionari. «In Europa le imprese hanno raccolto in totale 1000 miliardi di dollari in cash (sotto forma di utili, emissioni di bond, linee di credito). Un’ingente liquidità a disposizione che può rappresentare un enorme potenziale per operazioni di m&a; il mercato azionario europeo è salito solo a causa del re-rating, dovuto al venir meno delle paure sull’euro e da un sistema di tassi molto bassi, ma non possiamo certo definirlo sopravvalutato; anche la Bce, seppure non propositiva come la Fed, sembra decisa a incidere con un nuovo stimolo monetario all’economia», dichiara Michele De Michelis, responsabile degli investimenti di Frame am, società indipendente di advisory e gestioni patrimoniali. E continua: «negli Usa la percentuale tra la capitalizzazione dell’indice S&P500 e gli asset totali della Fed è molto inferiore alla media del passato; una ricerca Gallup dimostra che la percentuale degli investimenti americani in azioni è la più bassa da anni, intorno al 52% contro una media del 60% circa dei primi anni 2000 e il 65% del 2007; allo stato attuale i fondi pensione americani detengono mediamente il 60% in obbligazioni (che non rendono poi come negli anni precedenti) e 40% in azioni, mentre fino a pochi anni fa avveniva l’esatto contrario; in Giappone l’Abenomics sta funzionando, l’inflazione comincia a riemergere e lo yen prosegue la sua discesa nei confronti del dollaro. Per tale motivo a questo punto non avrebbe alcun senso per il governo e la banca giapponese interrompere lo stimolo monetario. Per tutti questi motivi posso considerarmi cautamente positivo. I rischi sono ovviamente quelli soliti esogeni geopolitici». (riproduzione riservata)