di Antonio Ciccia e Alessio Ubaldi  

 

La società che accetti le condizioni contrattuali dell’appalto dettate dall’amministrazione si assume la responsabilità per tutte le conseguenze dannose che possano derivare a terzi in esecuzione dei lavori, e ciò anche laddove le risorse messe a disposizione dalla stazione appaltante risultino inadeguate o insufficienti.

Lo ha stabilito la quarta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 42498, depositata il 16 ottobre 2013.

Nel caso concreto il comune di Roma ha affidato a una società la manutenzione ordinaria, la sorveglianza e l’intervento sulla grande viabilità del territorio romano. Durante i lavori è accaduto che un ciclista, percorrendo uno dei viali sotto manutenzione, si sia imbattuto in una buca profonda quasi venti centimetri, cadendo rovinosamente a terra e riportando diverse lesioni.

Dell’incidente è stato chiamato a rispondere l’amministratore unico della società appaltatrice, sottoposto a procedimento penale innanzi al giudice di pace per il reato di lesioni colpose. L’accusa mossa nei suoi confronti dalla procura è stata quella di aver adempiuto negligentemente agli obblighi nascenti dall’appalto, omettendo la dovuta vigilanza sui pericoli nascenti dall’incarico posto che la buca da cui era scaturito l’incidente del ciclista non era stata segnalata né erano state apprestate misure impeditive al verificarsi di eventi dannosi del tipo di quello accaduto.

All’esito del processo di primo grado il giudice ha ritenuto fondata la tesi della procura, di conseguenza condannando l’imputato alla pena della multa assieme al risarcimento dei danni patiti della parte civile. Della stessa opinione è stato il tribunale monocratico, adito in appello dai difensore dell’amministratore unico: per entrambi i giudici di merito, infatti, la responsabilità dell’imputato derivava dal non aver lo stesso adempiuto agli obblighi contrattuali di vigilanza, da effettuarsi 24 ore su 24, e di immediata eliminazione o segnalazione dei pericoli rilevati sulle strade.

La decisione del giudice di secondo grado è stata impugnata in sede di legittimità: alla Suprema corte è stato chiesto l’annullamento della decisione muovendo dall’asserita erroneità dei precedenti verdetti di condanna che male avrebbero rinvenuto i limiti della posizione di garanzia gravante sui gestori della società appaltatrice: la difesa ha argomentato la propria tesi osservando come nel capitolato d’appalto fosse prevista la facoltà della stazione appaltante di procedere a indagini per verificare l’esatta esecuzione dei lavori e imporre sanzioni in caso di mancato rispetto degli obblighi, contestazioni e sanzioni che non ricorrevano affatto nel caso di specie. D’altra parte, la difesa ha insistito nel sostenere come i mezzi destinati dal comune all’attività di sorveglianza del territorio fossero minimi, tanto che la società appaltatrice si era trovata costretta a lavorare con una sola squadra di sorveglianza ogni cinque municipi (ossia per uno spazio di circa 800 km per ciascuna squadra): da qui il richiamo alla regola generale, in materia di responsabilità per colpa, secondo cui non è sufficiente l’oggettiva inosservanza della regola cautelare di condotta, poiché occorre non di meno che questa sia soggettivamente imputabile al soggetto agente.

Ebbene, i giudici romani, nel rigettare completamente il ricorso presentato, hanno risposto a entrambe le censure nei seguenti termini. Con riferimento alla mancata contestazione di violazioni degli obblighi da parte dell’amministrazione comunale, è stato osservato come siffatto profilo non potesse assumere alcun rilievo poiché si trattava di circostanze avulse dall’attestazione o meno, in sede penale, del pieno rispetto, da parte della società, degli obblighi nascenti dal contratto di appalto né potevano risultare utili ai fini dell’esonero dell’imputato da ogni responsabilità.

Analogamente, è stata rigettata la contestazione relativa alla mancanza di fondi destinati all’attività di sorveglianza: sul punto, gli ermellini hanno evidenziato come «l’impossibilità di gestire adeguatamente il territorio per l’insufficienza del corrispettivo previsto nell’appalto, non autorizzava certo l’imputata a non rispettare gli obblighi assunti e a fornire un servizio assolutamente inadeguato, bensì la obbligava a segnalare al committente l’impossibilità di garantire il servizio stesso e di concordare possibili diverse soluzioni». Lambendo i confini della «colpa per assunzione», dunque, la Corte capitolina ha redarguito l’imputato sottolineando come, peraltro, «nulla» lo avesse obbligato a sottoscrivere il contratto di appalto o, comunque, ad accontentarsi di corrispettivi inadeguati alla rilevanza degli impegni che avrebbe dovuto assumere.

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