di Luisa Leone e Roberto Sommella
Ci sono due uomini in Italia che detengono un archivio smisurato: Giulio Andreotti e Cesare Geronzi. Il primo non ne ha mai fatto mistero, tanto che le sue memorie sono divenute pubbliche. Del banchiere, autore assieme a Massimo Mucchetti di Confiteor, evento editorial-finanziario dell’anno, si conosce invece solo la libreria per sommi capi. Ma è impossibile che una serie di giudizi così precisi di personaggi del calibro di Enrico Cuccia o Mario Draghi, colti nel loro aspetto anche per dipingerne un gesto o una posizione in uno dei tanti tornanti della storia economica italiana, sia custodita solo nella memoria del banchiere di Marino. Che, si sa, ha una battuta e una definizione pronta per tutti. Come quella che ha regalato di recente a MF-Milano Finanza e che non è nel libro appena dato alle stampe, sul braccio di ferro tra Consob e Fiat sul tema della liquidità: «Il Lingotto a noi banchieri i conti ce li avrebbe dati subito, senza dover scrivere 19 lettere». Segno che ci sono passaggi che si dimenticano ma anche che occorre sottolineare per mettere insieme dalla A alla Z il mondo secondo Cesare. A partire dall’ultima casella, quella da dove l’ex presidente delle Generali è stato allontanato nella primavera del 2010. «Le Generali sono sempre state scalabili, basta guardare la composizione dell’azionariato. E oggi lo sono più di ieri a causa della debolezza del titolo. Se non è accaduto», confida nel libro Geronzi tra mille ricordi che qui di seguito vengono riportati in pillole, «è perché le altre due grandi compagnie europee, Axa e Allianz, si marcano strette e si bloccano a vicenda». Sembra una cosa scontata definire brutalmente il Leone di Trieste scalabile, ma detto da lui assume tutto un altro sapore sulla fame di Italia che c’è di questi tempi nonostante il caos politico e la crisi di fatto del governo Monti. Giusto quindi mettere insieme in un breviario il suo pensiero sui protagonisti della finanza italiana. Magari sarà utile nel prossimo nebuloso futuro del Belpaese. Agnelli Gianni. «L’Avvocato è l’Avvocato. La Banca di Roma considerava l’opa del San Paolo ostile. Avevo urgenza di vederlo ma Agnelli stava partendo per New York. Così mi disse di dirgli quello che dovevo per telefono. Gli rappresentai in poche parole quanto fossi preoccupato per l’operazione e deluso per il modo in cui era stata avviata e sostenuta anche dai suoi uomini, da Galateri e da Fresco. E Agnelli, con la sua voce così elegante, sospirò: ma caro Geronzi se lei non vuole non si fa. L’Avvocato stava facendo l’Avvocato». Arpe Matteo. «Giovane, capace, brillante. Ma un eccesso di ambizione lo ha tradito. Arpe aveva una cultura finanziaria più sofisticata di altri colleghi banchieri». Baffi Paolo. «Una volta il governatore Baffi capitò nel mio ufficio nei minuti precedenti il fixing. Si sedette sulla poltrona davanti alla scrivania e mi fece cenno di continuare pure la telefonata. Al termine avendo inteso che parlavo con un responsabile finanziario di un grande gruppo mi riprese. Poi capì che non doveva essere in quell’ufficio in quell’ora. Non aggiunse altro e uscì». Bazoli Giovanni. «Con lui ho maturato una lunga e seria consuetudine, quando Della Valle ci definì gli arzilli vecchietti lo trovai disgustato. Ma Nanni – gli dissi – tu non ti devi preoccupare, Della Valle ha Ntv». Bernheim Antoine. «Al mio predecessore in Generali piaceva mostrarsi eccentrico. Divagava in consiglio su cosa gli aveva confidato Sarkozy e poi guardava l’orologio. Si è fatto tardi: devo tornare a Parigi. E così ciascuno se la sbrigava da solo». Berlusconi Silvio. «Quando nel 2003 si trattò di sostituire a Mediobanca Vincenzo Maranghi, Berlusconi mi propose al telefono Bruno Ermolli, il suo Gianni Letta milanese. Gli spiegai che c’è sedia e sedia, ma Berlusconi non coglieva la delicatezza di certe situazioni». Capaldo Pellegrino. «Capaldo è Capaldo, la collaborazione con lui è durata nove anni. Insieme con lui, partendo dalla Cassa di Risparmio, abbiamo costruito la Banca di Roma». Carli Guido. «Il suo profilo, che sembrava intagliato nel legno, e una certa timidezza, forse alimentata dai doveri del ruolo, lo facevano apparire scostante, ma così non era. L’uomo Carli riemergeva negli incontri conviviali, dove amava fare sfoggio di ironia». Caltagirone Francesco Gaetano. «Quando ci fu la congiura contro di me in Generali, la scelta di Caltagirone non mi fece piacere, la considerai e la considero tuttora un errore. Forse lui pensava che i giochi fossero ormai fatti e che a quel punto la compagnia avesse bisogno di trovare stabilità. Tuttavia non vedo Caltagirone tra i congiurati». Ciampi Carlo Azeglio. «Ai tempi delle due opa ostili su Comit e Banca di Roma da parte di Credit e Sanpaolo Imi, Ciampi convocò nel suo studio di ministro del Tesoro me e Rainer Masera: ci prese sotto braccio per convincerci della bontà delle operazioni. Poi mi portò in un salottino e lì esercitò la sua moral suasion. Mi dispiacque molto doverlo avvertire che ormai avevo espresso la mia contrarietà in Banca d’Italia. Mi dispiacque davvero perché stimavo e stimo il presidente Ciampi». Cuccia Enrico. «Un gigante. Nitida la voce, senza accenti regionali, penetrante lo sguardo, il pensiero affilato tanto quanto il tagliacarte di pietra degli Urali che, poi mi raccontò in seguito, gli era stato regalato dal suo antico mentore Raffaele Mattioli».
D’Alema Massimo. «D’Alema che fa il D’Alema è perfetto. Nel 2000, all’epoca delle opa su Comit e Banca di Roma, lo trovai già bene informato dalla Banca d’Italia. Come era sua abitudine D’Alema non intervenne in alcun modo, in quello che comunque era un affare tra soggetti privati. ?? libero da pregiudizi». De Benedetti Carlo. «Nel 2007 De Benedetti si era preso la presidenza dell’editoriale L’Espresso relegando il principe Carlo Caracciolo alla presidenza onoraria. A volte il mercato ha le sue insospettabili risorse. Con lui ho avuto sempre rapporti corretti e trasparenti». Della Valle Diego. «Si è proposto come l’Alfiere del Nuovo che Avanza. Ritiene di avere titolo per parlare, anzi per dettar legge perché lui investe del suo. Nella mia uscita da Generali è stato il mandato e non il mandante». Dr a g h i M a r i o . « S t r a o r d i n a r i o . A Francoforte sta dando il meglio di sé, non sbaglia un colpo. Ed è lui che merita la riconoscenza del Paese e dell’intera Eurozona. E anche da governatore di Banca d’Italia era stato bravo». Fazio Antonio. «A partire dal 1994, dal suo insediamento in banca d’Italia come governatore, è stata promossa la più grande operazione di risanamento, riorganizzazione e consolidamento del sistema bancario che si ricordi, un’operazione che si è sviluppata lungo tutto l’arco degli anni Novanta». Galateri di Genola Gabriele. «Un presidente di campanello». Gheddafi Muammar. «Gheddafi mi ricevette nel 1997 nella sua tenda, un cubo di 500 metri quadrati, issata nell’oasi di Saba, nel cuore del deserto libico. Il colonnello aveva al suo fianco il governatore della Bank of Libya, il ministro dell’Economia e il presidente dell’Islamic Foundation. La disponibilità della Lafico a sottoscrivere una quota delle obbligazioni e delle azioni convertibili della Banca di Roma fu preziosa». Letta Gianni. «Letta è un uomo di valore che viene diffusamente stimato, che rassicura, che si impegna a dare una mano ma che non sempre riesce a mantenere le promesse, viste le numerosissime richieste di sostegno che riceve». Ligresti Salvatore. «Convocato notte tempo in Mediobanca per firmare l’offerta per Fondiaria, nella concitazione del momento si presentò da Maranghi in pigiama. Ma c’era un sistema da smantellare». Marchetti Piergaetano. «Notaio e grande giurista. Anche lui, che nominammo presidente di Rcs 2004, aveva lavorato all’idea della Fondazione per Rcs. Il professore è un giurista di grande prestigio ma neanche lui è riuscito a quadrare il cerchio». Marchionne Sergio. «Ha avuto l’onestà di ammettere che quando arrivò in Fiat nella seconda metà del 2004 trovò almeno 10 miliardi di euro. E nei cassetti dell’ufficio progettazione c’era anche qualche bel modello, come poi non se ne sarebbero più visti». Monti Mario. «Un Cincinnato. Oggi grazie all’articolo 36 del salva-Italia, Doris è dovuto uscire dal consiglio di Mediobanca perché siede anche in quello di Mediolanum. Al suo posto nel consiglio di Piazzetta Cuccia è finalmente entrato Ermolli. Come voleva Berlusconi quando ci fu da sostituire Maranghi. Invece di nominare commissari a non so cosa gli economisti Giavazzi e il manager Bondi, il governo Monti dovrebbe impostare la riforma dell’alta burocrazia. Ma il governo dei tecnici è infarcito da consiglieri di Stato». Nagel Alberto e Pagliaro Renato. «Inadeguati. Esercitano in Mediobanca una funzione delegata. Che tendano all’autoreferenzialità è un fatto arcinoto che doveva finire con le dimissioni di Maranghi. Non siamo in presenza di personaggi di una tale levatura che solo la storia può giudicare». Palenzona Fabrizio. «Capace, abile, il dottor Palenzona non è mai un comprimario, è un uomo che esercita vaste influenze. Tolga oggi Palenzona da Mediobanca e vedrà che resta poco». Pe l l i c i o l i L o r e n z o . «Mandante, insieme ad Alberto Nagel, della mia cacciata da Generali. Il manager della De Agostini voleva coprire il banchiere, ma poi Nagel si è addirittura intestato il ruolo di mandante unico. Oggi, senza Unicredit, Mediobanca sarebbe preda di Pelliccioli». Perissinotto Giovanni. «Auguro all’ex amministratore delegato delle Generali di avere ragione sulla redditività della joint venture con Ppf, vedremo come tratterà la materia il successore Mario Greco. Quanto alle Generali, sono sempre state scalabili, basta guardare la composizione dell’azionariato. E oggi lo sono più di ieri a causa della debolezza del titolo. Se non è accaduto è perché le altre due grandi compagnie europee, Axa e Allianz, si marcano stretto e si bloccano a vicenda». Profumo Alessandro. «Nel 2004, l’allora ad di Unicredit propose di vendere le partecipazioni di Mediobanca, prime fra tutte quelle in Rcs e Generali, reinvestendone il ricavato nella banca in senso stretto. In alternativa suggerì la scissione: da una parte l’attività bancaria, dall’altra le partecipazioni, riunite in una holding. Ma sostenne quella linea senza troppa convinzione. Ma con Profumo si parlava in assoluta lealtà». Tremonti Giulio. «Un uomo capace, capace di tutto. Non so se e quanto Tremonti abbia avuto parte nella formazione del consenso attorno alla mia nomina in Generali. Certo è che Tremonti un ruolo benedicente l’ha avuto nella congiura che mi ha indotto a lasciare la presidenza della compagnia». (riproduzione riservata)