Paola Valentini
In Italia la rivalutazione per l’inflazione da record delle pensioni in essere assorbirà in automatico una spesa di 50 miliardi di euro da qui ai prossimi tre anni. Ma lo scenario diventa ancora più allarmante considerando che, come ha evidenziato MF-Milano Finanza del 12 novembre scorso, non si hanno notizie sulla verifica statistico-attuariale che l’Inps deve effettuare ogni tre anni sulla sostenibilità del sistema previdenziale italiano: la precedente analisi risale a cinque anni fa, ovvero prima delle costose misure di Quota 100 e Reddito di cittadinanza e dei costi per gli ammortizzatori sociali imposti dalla pandemia. L’Inps afferma che il documento è stato inviato ai ministeri competenti nel luglio 2021 ma la Corte dei Conti, a pagina 8 della Relazione 2022 sulla gestione dell’Inps del giugno scorso, scrive: «L’ultima verifica statistico-attuariale che, in base agli articoli 153 e 154 del regolamento di amministrazione e contabilità, compete con cadenza triennale al Coordinamento statistico attuariale, risale ormai al 2017; essa, pertanto non comprende i mutamenti della legislazione di settore, solo nel 2019, Quota 100 e Reddito di cittadinanza o, quanto al 2017 e 2018, le mancate riscossioni per effetto di misure di sanatoria, e non contempla gli effetti della pandemia, tutti aspetti che hanno determinato una ulteriore notevole divaricazione tra il dato reale e la previsione statistico attuariale».

Già oggi,anche senza conoscere gli impatti di Quota 100, del Reddito di cittadinanza e delle altre misure, la Corte dei Conti, pur con i suoi soliti toni felpati, lancia l’allarme sulla sostenibilità del sistema previdenziale italiano: «nel lungo periodo la spesa pensionistica lorda non è compensata dalle entrate accertate e lo spread tende ulteriormente ad aumentare in misura sempre più accentuata anche in relazione all’effettiva capacità di riscossione. Nel 2046 la copertura prevista dalle entrate contributive sarà pari all’82% al netto dell’intervento della Gestione interventi assistenziali, restando a carico della fiscalità generale il 31% dell’intera spesa pensionistica», scrive ancora la magistratura contabile nella sua Relazione. Un deficit che pesa come un macigno sulle spalle non tanto di chi la pensione la riceve già ma delle nuove generazioni. Una situazione critica di cui è peraltro ben consapevole il presidente del consiglio Giorgia Meloni.

Non a caso la premier nel corso di un incontro con i sindacati a inizio novembre ha affermato senza mezzi termini che le pensioni dei giovani «rischiano di essere inesistenti, è un problema serio, certo loro non useranno mai Quota 41: difficile che abbiano 41 anni filati di contributi. Immagino per i giovani una pace contributiva per coprire i buchi del lavoro saltuario, il riscatto della laurea agevolato e la defiscalizzazione per la previdenza complementare». Interventi che si dovranno innestare un un riordino complessivo del sistema previdenziale italiano. Il quale, negli ultimi dieci anni, ovvero dopo la legge varata a inizio 2012 dall’allora ministra del Lavoro Elsa Fornero, è stato modificato con diverse misure correttive per tamponare l’aumento drastico dell’età della pensione anche di cinque-sei anni deciso dall’ex governo Monti nel mezzo della crisi dello spread del 2011. Sono stati tutti interventi temporanei in vista appunto di un provvedimento unitario che però è stato sempre rimandato nel tempo per varie cause non ultima la pandemia. E tra le disposizioni a tempo introdotte in questi anni le più importanti riguardano la flessibilità in uscita, al quale ha fatto cenno la stessa Meloni nel riferimento a Quota 41 (anni di contributi), il cavallo di battaglia della Lega. Oggi è in vigore Quota 102, data dalla somma tra 64 anni di età e 38 di contributi, introdotta solo per il 2022 dopo l’esperimento triennale di Quota 100 (62 anni di età e 38 di contributi), voluto dalla Lega, che ha coperto il periodo 2019-2021.

Di conseguenza, in assenza di interventi dal gennaio 2023 torneranno i soli requisiti della legge Fornero: pensione di vecchiaia a 67 anni oppure anticipata con 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne (si veda tabella). Per evitare lo scalone, il nuovo esecutivo ha dovuto trovare una soluzione in extremis. Che sarà morbida, in attesa di una revisione totale del sistema pensionistico che è stata posticipata ancora visto che il governo appena insediato ha la priorità redigere la manovra per il prossimo anno.

E proprio dalla manovra sul 2023 arriverà il primo intervento del governo sulla previdenza: la legge di Bilancio che lunedì 21 sarà esaminata dal Consiglio dei ministri conterrà nel capitolo pensioni l’intervento sulla flessibilità in uscita. Non c’è soltanto poco tempo da qui a fine anno ma soprattutto ci sono pochi soldi, a maggior ragione considerando che il budget per le pensioni aumenterà di oltre il 7% a causa della maxi rivalutazione legata al meccanismo di indicizzazione all’inflazione degli assegni in pagamento, come ha detto il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti: «Tra il 2022 e il 2025, la spesa per pensioni assorbirà risorse per oltre 50 miliardi». D’altra parte oltre alla rivalutazione delle pensioni c’è da finanziare anche il caro bollette e il taglio del cuneo fiscale che scade alla fine del 2022.

In vista di una riforma più ampia, nella manovra dunque non ci sarà alcuna rivoluzione nel capitolo pensioni: la nuova modalità di uscita dovrebbe permettere di lasciare il lavoro a chi ha 41 anni di contributi ma con il paletto dei 62 anni di età. Si tratterebbe di una Quota 103, a metà dell’intervallo di requisiti, proposti in queste settimane dai vari membri del governo, tra Quota 102 (41 anni di contributi e 61 anni di età) o 104 (41 anni di contributi e 63 anni di età). La misura costerà circa un miliardo e sarà trovato nelle pieghe del bilancio (d’altra parte risparmi sono possibili a partire dalla stretta sul Reddito di cittadinanza). Il sottosegretario leghista al Lavoro, Claudio Durigon, sta studiando la misura con la ministra del Lavoro Marina Calderone e Giorgetti.

Un’elaborazione di smileconomy (società di consulenza indipendente) per MF Milano Finanza calcola gli effetti su età e importo della pensione dei tre scenari di Quota 102, 103 e 104 (tabella in pagina). «Si conferma un impatto contenuto a 10 mesi per le lavoratrici e ad 1 anno e 10 mesi per i lavoratori. Quindi il calo dell’assegno pensionistico è limitato a valori compresi tra il 2% ed il 4%. Anche se la formulazione finale dovesse essere una Quota 102, 103 o 104, l’aver alzato il numero minimo di anni di contribuzione da 38 a 41 renderebbe la platea degli interessati più ristretta e con minori impatti sia sull’anticipo del momento della pensione che sul taglio dell’assegno pensionistico. La principale variabile da considerare sarà però la sostenibilità in termini di maggiore spesa pensionistica», spiega Andrea Carbone, fondatore di smileconomy. Come per Quota 100, la nuova misura dovrebbe prevedere il divieto di cumulo con il lavoro. Lo scorso giugno una analisi dell’Inps e dell’Ufficio parlamentare di bilancio riferiva che per Quota 100 sono state accolte poco meno di 380 mila domande.

Saranno prorogate di un altro anno anche le formule Opzione donna (il pensionamento, con il ricalcolo contributivo dell’assegno, delle lavoratrici in possesso di 58 anni d’età, 59 se autonome, e 35 anni di contributi) e Ape sociale (un’indennità introdotta nel 2017 per i lavoratori in stato di difficoltà che chiedano di andare in pensione a 63 anni con un’anzianità contributiva prevista per la propria categoria). «In questo momento dobbiamo lavorare sulle cose esistenti, quindi Opzione donna e Ape sociale, per me e per il governo sono da riconfermare», ha detto la ministra Calderone. «Riguardo a Quota 41, certamente non può essere un 41 secco, quindi solo 41 anni di contributi, o perlomeno non può esserlo oggi. Nell’ambito di una riforma complessiva di sistema può essere un punto di partenza di un ragionamento che però contempli anche un collegamento a un gate di uscita che è l’età anagrafica», ha spiegato Calderone. E visto che un primo provvedimento va preso in fretta, l’età ipotizzata con 41 anni di contributi, «potrebbe essere intorno ai 62-63 anni. Ci potrebbe essere anche un ragionamento sui 61 anni. Anche se è una misura che cuba un po’ di più», ha aggiunto Calderone. Il nuovo canale sarebbe «per un solo anno nell’attesa di una riforma sistemica e strutturale che vada anche ad interessare la previdenza complementare», ha sottolineato Calderone, perché «qui non è solo in discussione il primo pilastro pensionistico ma anche il secondo, perché soprattutto per i giovani abbiamo bisogno di arrivare a pensioni sostenibili». (riproduzione riservata)
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