La Corte Costituzionale con la sentenza sulle cosiddette pensioni d’oro, annunciata lo scorso 22 ottobre con un comunicato stampa, ha prodotto un grave vulnus sia alla certezza del diritto sia all’uguaglianza tra i vari soggetti nei confronti della legge, accreditando per giunta una falsa comunicazione sociale del precedente governo gialloverde.
Nell’esame di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Milano e dalle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti per il Friuli-Venezia Giulia, il Lazio, la Sardegna e la Toscana, sulle misure di contenimento della spesa previdenziale disposte dalla legge di Bilancio 2019 a carico delle pensioni di importo elevato, sia per quanto concerne la riduzione della rivalutazione all’inflazione per il triennio 2019-2021 delle pensioni superiori a 5 volte il minimo, sia per la decurtazione percentuale per cinque anni delle rendite superiori a 100.000 euro lordi annui, il cosiddetto contributo di solidarietà, la Corte ritiene legittimo il «raffreddamento della perequazione», (così lo chiama) in quanto ragionevole e proporzionato e pure legittimo il «contributo di solidarietà» anche se ne riduce la vigenza a 3 anni, fino a tutto il 2021, ritenendo eccessiva la durata quinquennale, rispetto all’orizzonte triennale del bilancio di previsione dello Stato.
Ci si potrebbe chiedere cosa c’è di ragionevole e proporzionale nel decurtare le pensioni a pochissimi soggetti e per così tanto tempo? Non si tratta certamente né di super ricchi ma di persone che hanno lavorato 40 anni e più e oggi sono per lo più ultra 70enni. Possibile che l’unica censura non riguardi la sostanza del provvedimento ma solo la sua durata.
Lo stupore aumenta soprattutto leggendo le precedenti sentenze della Corte che aveva sì avvallato misure simili, ma affermando categoricamente che dovevano essere di durata limitata nel tempo e non ripetitive. Per memoria si ricorda che:
1) le mancate rivalutazioni iniziano con il governo Prodi che nel 1997 azzera la rivalutazione delle pensioni di importo superiore a 5 volte il minimo, cioè pensioni nette da 1.430 euro circa; l’azzeramento si protrae fino alla fine della legislatura con i governi D’Alema e Amato. Si ritorna alla normalità nel periodo 2001/2006 (governi Berlusconi), ma già nel 2008 la rivalutazione delle pensioni sopra 8 volte il trattamento minimo viene azzerata, ancora dal governo Prodi; con il governo Berlusconi e fino al 2011, i pensionati ricevono la loro regolare rivalutazione sulla base della legge 388/2000, poi le cose precipitano con i successivi governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2. Per la suprema Corte non basta come ripetitività? Si pensi che chi nel 2006 prendeva 3.000 euro lordi (2.100 netti), ha perso in meno di 13 anni quasi trentamila euro, cioè ben due terzi di una annualità di pensione; con 4.000 euro lordi al mese (2.800 netti) ha perso poco meno di un intero anno di pensione: 48.769 euro su 52.000 € annui. Questa situazione ha penalizzato poco più di 3 milioni di pensionati su 16 milioni in totale e sono proprio quelli che i contributi e le imposte, le hanno pagate a differenza degli oltre 8 milioni di pensionati totalmente o parzialmente assistiti dallo Stato che assieme ad altri 2 milioni, di imposte nella loro vita ne hanno pagate poche.
2) Già il titolo del provvedimento governativo «misure di contenimento della spesa previdenziale» avrebbe dovuto mettere in guardia la suprema Corte: la norma infatti propone risparmi di spesa per forse 70 milioni netti l’anno per 5 anni ma contestualmente aumenta la spesa pensionistica per oltre 50 miliardi con quota 100 e la pensione di cittadinanza; non pare alla Corte che ci sia una grave incongruenza considerando che i provvedimenti citati sono a debito e sulle spalle delle giovani generazioni?
3) C’è poi la sostanza della falsa comunicazione sociale del governo, segnatamente dell’allora ministro del Lavoro che parla di ricalcolo delle pensioni al fine di correlarle ai contributi versati tagliando gli ingiusti privilegi, un’affermazione falsa che non giova certo alla coesione sociale; dalla Corte mi sarei aspettato almeno una censura anche perché se si dovesse fare il ricalcolo a contributivo almeno la metà dei pensionati rimarrebbe senza pensione mentre ricalcolando a contributivo le pensioni cosiddette d’oro, la maggior parte di esse dovrebbero essere aumentate?
4) In materia di «taglio» la Corte non ha fatto alcuna verifica che invece avrebbe potuto fare agevolmente con l’Inps sulle modalità di calcolo: avrebbe scoperto che non è stato fatto alcun ricalcolo matematico o attuariale ma solo un brutale incremento di tasse a carico di soli 35.600 vecchietti che dopo una vita di contributi e tasse si sono visti aumentare senza alcun calcolo la loro tassazione.
5) Quanto alle modalità di decurtazione esposte nella circolare n. 62/2019 dell’Inps, emergono ulteriori perplessità: a) l’utilizzo della gestione separata e dei contributi dal 2012 al 2019 tutti già calcolati a contributivo che quindi si dovrebbero scorporare dall’importo dell’ammontare totale della pensione; b) il conteggio delle ricongiunzioni onerose, pagate o in pagamento dai beneficiari, le contribuzioni volontarie o i riscatti di laurea e specializzazioni; c) colpire anche i pensionati che hanno contribuito per più di 40 anni e che nel retributivo non davano luogo ad alcuna prestazione o quelli che sono andati in pensioni a 71 o più anni, come i magistrati. Il rischio è che in futuro si potrebbero tagliare anche le pensioni da 35/50 mila euro che già oggi non beneficiano di deduzioni e detrazioni aumentando a dismisura la progressività e cosa potrebbe dire la Corte dopo questa pronuncia?
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