Lo ha ribadito la Corte di cassazione analizzando i presupposti necessari alla colpa
Servizio sanitario, superfluo qualificare la condotta
di Gabriele Chiarini
Quando non c’è un danno risarcibile, è superfluo discorrere dell’esistenza o dell’inesistenza di una condotta colposa del personale sanitario, perché – in ogni caso – difetta uno dei presupposti della responsabilità. Lo ha ribadito la Corte di cassazione, sez. III, nell’ordinanza n. 24514 depositata il 1° ottobre 2019.
Nel caso di specie, un utente del servizio sanitario si era recato in ospedale per un intervento programmato, ma un problema organizzativo aveva fatto saltare l’appuntamento. Adiratosi e, addirittura, invocato l’ausilio delle forze dell’ordine, il paziente si era visto fissare una nuova data, di lì a pochi giorni, per il trattamento.
Non pago, aveva citato in giudizio l’A.S.L. per il risarcimento del danno sofferto in conseguenza della vicenda descritta. Respinta la domanda prima dal Giudice di Pace e poi dal Tribunale adito in sede di appello (seppur con diverse argomentazioni), l’interessato ha ritenuto di invocare l’intervento della Suprema corte, la quale ha – comprensibilmente – rigettato l’impugnazione, con condanna del ricorrente a pagare le spese di lite nei confronti dell’Azienda Sanitaria e del relativo assicuratore.
È noto, del resto, che i presupposti dell’illecito – contrattuale o extracontrattuale che sia – sono tre e debbono essere tutti presenti perché possa darsi accesso alla sanzione civile risarcitoria: la condotta (o l’omissione) colpevole, il danno (ingiusto), nonché il nesso causale tra la prima ed il secondo.
Non basta dunque, in ambito di responsabilità della Struttura Sanitaria, limitarsi ad invocare la violazione (che, per inciso, si presume fino a prova contraria, ai sensi dell’art. 1218 c.c.) dei doveri assistenziali o delle prescrizioni comportamentali pertinenti rispetto al caso di specie.
Bisogna anche allegare, e dimostrare, di aver sofferto – quale conseguenza di questa violazione – un effettivo pregiudizio, che è costituito dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante o, meglio, dalle implicazioni negative che da tale lesione derivano.
Nulla quaestio, allora, se la lesione attinge l’integrità psico-fisica del paziente, la quale, di per sé, dà accesso alla tutela risarcitoria (non essendo in dubbio la rilevanza costituzionale del bene «salute»).
Ma se il nocumento lamentato riguarda un altro interesse della persona, è imprescindibile che detto nocumento sia grave, nel senso che l’offesa deve superare una soglia minima di tollerabilità, poiché il dovere di solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione impone, a ciascuno di noi consociati, di tollerare quelle minime intrusioni nella propria sfera personale che inevitabilmente scaturiscono dalla civile convivenza.
Ed è altresì necessario – come insegna la giurisprudenza – che il pregiudizio non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari (come quello alla qualità della vita o alla felicità).
D’altronde, in linea con la funzione promozionale del diritto, gli interpreti hanno sempre sentito l’esigenza di stabilire un criterio di discriminazione per cui un danno vada elevato a fatto giuridico, fonte di responsabilità risarcitoria. E questo criterio risiede anche nell’entità del pregiudizio. Perciò non può che condividersi la scelta di censurare il fenomeno della cd. frivolous litigation, nella sua specifica accezione di prassi volta ad instaurare azioni relative a danni futili o inconsistenti, a fortiori in una materia tanto delicata qual è la responsabilità sanitaria.
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