Le indicazioni della Suprema corte per valutare la responsabilità degli amministratori
Chi maschera le perdite deve risarcire il creditore
Pagina a cura di Dario Ferrara
Gli amministratori della società di capitale che mascherano le perdite sono condannati a risarcire il creditore che dimostra la cattiva gestione e la perdita della garanzia generica costituita dal patrimonio sociale. E in caso di default dell’azienda i componenti del collegio sindacale pagano alla curatela un danno pari al deficit fallimentare perché non hanno impedito la progressiva riduzione del patrimonio causata dagli amministratori. È quanto emerge, rispettivamente, dall’ordinanza 28613/19 e dalla sentenza 28617/19, pubblicate dalla terza sezione civile della Cassazione.
Omissioni e conseguenze. Con l’ordinanza 28613/19 è accolta, dopo una doppia sconfitta in sede di merito, l’azione del creditore: si tratta di un’impresa edile cui la cooperativa «incriminata» aveva commissionato la costruzione di una serie di villini senza mai pagare il saldo. Trova ingresso la censura secondo cui le perdite nascoste dagli amministratori consentono alla cooperativa di proseguire l’attività nonostante il capitale sociale sia bruciato. E permettono ai manager di assegnare, anche a se stessi, gli immobili costruiti; il tutto in violazione dell’articolo 2486 cc. Sbaglia il tribunale delle imprese a escludere la responsabilità di amministratori e revisore sul rilievo che non è stata provata la distrazione dei proventi derivanti dalle assegnazioni per scopi estranei alla cooperativa. L’atto di disposizione compiuto in condizioni di irregolarità gestorie, perché le perdite non erano state ripianate, deve essere valutato in rapporto alle conseguenze delle precedenti omissioni sul piano contabile: il bilancio è truccato anche perché non riporta il mancato pagamento di quote da parte dei soci. Insomma: all’atto dell’assegnazione la società è di fatto sciolta perché ha perso il capitale e deve tendere a conservare la ricchezza, mentre l’atto di disposizione costituisce un danno che riduce il patrimonio al punto da non poter soddisfare i debiti della società (con il nuovo codice della crisi d’impresa l’azione di responsabilità è direttamente riferita agli amministratori srl).
Con la sentenza 28617/19, inoltre, i giudici di legittimità sostengono che risulta legittimo liquidare il risarcimento a carico dei sindaci della società nella misura della differenza fra l’attivo e il passivo del fallimento perché le scritture contabili sono irregolari e dunque inutilizzabili come base di calcolo: si tratta di un criterio equitativo utilizzabile in quanto le scritture non attendibili non consentono di accertare gli specifici effetti dannosi determinati dall’omesso controllo dei professionisti. Va tuttavia detratto dall’importo un credito recuperato dalla curatela: parola al giudice del rinvio.
Alcuni precedenti. Inutile tentare di precostituirsi vie di fuga. Non può essere opposto alla curatela fallimentare della società di capitali il fondo patrimoniale costituito quando la compagine è ancora in bonis dall’amministratore, in seguito condannato a risarcire i danni per la cattiva gestione. È irrilevante che la costituzione del vincolo avvenga in un periodo ben anteriore alla dichiarazione di insolvenza, mentre conta che l’amministratore compia l’atto di disposizione patrimoniale in una situazione che già lo espone al rischio di subire l’azione sociale di responsabilità: il danno al patrimonio e ai creditori risulta già prodotto, come dimostra la ricostruzione dei dati di bilancio effettuata dall’organo concorsuale.
È quanto stabilito dalla sentenza 22157/19, pubblicata dalla terza sezione civile della Cassazione.
Diventa definitiva la revocatoria del fondo patrimoniale in base all’azione del fallimento, che contro l’amministratore ha già promosso l’azione di responsabilità ex articolo 146 l.f. Il manager viene condannato a risarcire i danni per mala gestio. E non gli giova aver tentato di blindare i suoi beni assieme alla moglie quando era ancora al vertice della società. Decisiva la rettifica dei dati di bilancio compiuta dal curatore fallimentare e non adeguatamente contrastata con prove di segno contrario dall’ex amministratore: l’insufficienza patrimoniale risale a esercizi precedenti la dichiarazione di insolvenza della società, anche se al momento in cui risulta costituito il fondo patrimoniale i bilanci non mostrano segni di sofferenza.
Sono già molto negativi i dati economici della compagine quando l’amministratore e la moglie decidono di vincolare il loro patrimonio: l’obiettivo, dunque, non è tutelare la famiglia ma sfuggire ai futuri creditori. Lo dimostrano le rettifiche contabili e patrimoniali realizzate dall’organo concorsuale in sede di bilancio fallimentare. E le conferme arrivano dalle prove acquisite in procedimenti paralleli, per quanto non ancora definiti: quello penale per bancarotta e quello civile per l’azione sociale di responsabilità; sussiste dunque la consapevolezza di danneggiare i creditori, grazie alla valutazione di prove atipiche acquisite nei giudizi paralleli.
Attenzione, però. L’ex amministratore non risarcisce la spa per le tangenti che ha intascato sugli appalti concessi dall’azienda se non c’è la delibera sull’azione di responsabilità. Non può infatti essere esaminata dal giudice la domanda di risarcimento proposta dalla società contro l’ex amministratore delegato: manca l’atto dell’assemblea dei soci che autorizza a chiedere i danni. E ciò perché il top manager non avrebbe potuto compiere le condotte ascritte se non fosse stato vertice e mandatario dell’ente. È quanto si legge nella sentenza 11552/19, pubblicata dalla prima sezione civile della Cassazione.
Niente da fare per la società dopo la storia di mazzette che ha avuto anche strascichi penali. Non c’è dubbio che a carico dell’amministratore possa scattare un concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Ma la domanda nel secondo caso deve essere fondata su una condotta illecita da cui l’amministratore avrebbe dovuto astenersi come ogni altro consociato. Al nostro a.d. si imputa di aver fatto la cresta su commesse estere facendosi accreditare parte delle provvigioni versate a consulenti per operazioni di mediazione; viene quindi in rilievo il vincolo contrattuale di mandato che lo lega alla società: l’illecito sta nella violazione del rapporto di fiducia e nell’azione a danno della mandante, visto che l’operazione ben poteva costare meno alla società; si tratta peraltro di condotte che se fossero state commesse da un terzo non sarebbero state neppure illecite. Corretta, insomma, la qualificazione della domanda ex 2392 cc: consequenziale la necessità della delibera di autorizzazione dei soci ex 2393 cc.
Resta da capire cosa succede all’amministratore che usa fondi neri costituiti dal suo predecessore all’insaputa della società. La responsabilità è contrattuale perché il manager viene meno agli obblighi che derivano dal mandato: tiene la società all’oscuro dell’esistenza di risorse e della relativa utilizzazione e deve dunque risarcire l’opacità della gestione patrimoniale. Ma se gli atti di disposizione sono compiuti per fini extrasociali scatta anche un’altra responsabilità, per aver sottratto e dissipato cespiti aziendali, con l’inevitabile ristoro del danno.
© Riproduzione riservata
Fonte: