Le operazioni di m&a su aziende private garantiscono nuovi capitali da investire a imprenditori e manager. Così scatta la diversificazione della ricchezza. Tra wealth management e club deal
di Andrea Montanari
In Italia, nonostante tutto, la ricchezza non manca. Come certificato dalla Banca d’Italia, lo scorso anno, nelle tasche e nelle casse degli italiani c’erano poco meno di 10mila miliardi. Di questa enorme massa di liquidità, quasi il 50% era investito in finanza (4.400 miliardi tra azioni, bond e depositi), mentre la gran parte delle disponibilità (6.300 miliardi) era per beni fisici (abitazioni e terreni). Di fatto, la ricchezza reale è 5,5 volte il reddito disponibile e quella finanziaria è 3,8 volte.
E’ per questo che, nonostante fattori macro-economici come le tensioni Usa-Cina sui dazi commerciali e le dinamiche interne all’attuale maggioranza di governo, oltre che ai contrasti sempre più forti ed evidenti con l’Unione Europea, il mercato locale è pur sempre ricettivo. E soprattutto attrae capitali. E investitori stranieri. Lo dimostrano i numeri, seppure in flessione per la crisi che sta attraversando il Paese, dell’ultimo triennio certificati da Mergermarket.
Perché se nel 2015 erano state definite compravendite di aziende per 65 miliardi, lo scorso anno ci si era comunque mantenuti sopra la soglia dei 60 miliardi (60,8 miliardi). Mentre al 30 settembre scorso il controvalore del merger&acquisition ammontava a 42,26 miliardi. Un dato che, però, non contemplava alcune operazioni rilevanti come la cessione, da parte di Fca , di Magneti Marelli alla giapponese CK Holdings (controllata dal fondo di private equity Usa, Kkr) per 6,2 miliardi.
O l’acquisizione da parte dell’americana Michael Kors Holding del brand della moda Gianni Versace (1,83 miliardi di euro). Cifre rilevanti che si vanno a sommare ai 3 miliardi messi sul piatto dal fondo Cvc per aggiudicarsi la maggioranza (51,8%) di Recordati (l’equity value complessivo ammonta a 5,8 miliardi). Senza trascurare, ovviamente, il merger italo-spagnolo Atlantia -Abertis: affaire da 17 miliardi.
Ma se quest’ultima transazione è di natura prettamente industriale e non vi sono imprenditori che escono di scena e famiglie che dicono addio al loro business storico, tanti altri affari hanno visto imprenditori e dirigenti entrare in possesso di cifre ragguardevoli. Tesoretti che poi vanno re-investiti e che attirano come private banker, gestori e fund manager.
Si va, per l’appunto, dai 3 miliardi finiti nelle casse della Fimei, la holding della famiglia Recordati , ai 488 milioni che sono stata accreditati sui rispettivi conti correnti di Allegra, Donatella e Santo Versace (controllavano l’80% della griffe) grazie alla vendita della Medusa. Per non parlare dei 600 milioni incamerati dalla famiglia Fedrigoni per la cessione del 90% dell’omonimo gruppo (settore cartiere) al fondo Bain Capital, guidato in Italia da Ivano Sessa e Luca Bassi.
Ed è possibile che entro la fine dell’anno possa passare di mano anche il controllo della vicentina Forgital (settore aerospace), che come anticipato da MF-Milano Finanza giovedì 15 novembre, è finita nel mirino di Carlyle. Il fondo di private equity Usa gestito in Italia dal managing director Marco De Benedetti è pronto a investire qualcosa come 1,2-1,3 miliardi per comprare dai tre rami della famiglia Spezzapria (Domenico, detto Nadir, Roberto e Giorgio) per ampliare il proprio portafoglio composto oggi da Marelli Motori, Twin-Set, Golden Goose e Comdata, il cui processo di dismissione è stato congelato proprio in queste ultime settimane.
Gli Spezzapria si candidano per essere annoverati presto nel club dei nuovi Paperoni. Gruppo esclusivo che da qualche mese annovera anche le famiglie Rossi Luciani e Nalini, ossia i proprietari di Carel Industries (sistemi di refrigerazione) che è sbarcata allo Star garantendo con l’ipo un incasso ai soci di 250 milioni, e i Piovan al vertice dell’omonima società (produzione per le materie plastiche) che con la quotazione hanno incamerato oltre 150 milioni. E come non inserire tra facoltosi ex imprenditori i Pesenti che nel dire addio alla loro storica azienda, Italcementi, hanno visto planare sul loro tavolo un assegno di 1,6 miliardi dalla tedesca HeidelbergCement?
Insomma, un parterre de roi sempre più ampio che deve trovare il modo migliore per diversificare i propri portafogli e che fa la gioia dei wealth e private manager. Cacciatori di patrimoni che da qualche tempo hanno ricevuto l’input dalle case-madri di andare a sondare le volontà di questi industriali senza fabbrica, dei manager delle aziende oggetto di operazioni di m&a e usciti di scena con benefit e assegni milionari.
Senza trascurare poi i manager dei fondi di private equity che con le fee incassate in queste ultime stagioni di conquista da parte soprattutto di imprese e fondi esteri ora hanno il portafoglio gonfio più che mai: si narra, per esempio, che dal collocamento in borsa di Moncler , avvenuto nel dicembre del 2013, Marco De Bendetti abbia incassato una fee di alcune decine di milioni, mentre la sua omologa di Eurazeo pare che abbia addirittura toccato la soglia dei 50 milioni di commissioni per la buona riuscita dell’operazione.
In questo positivo contesto di mercato c’è un nuovo trend di diversificazione degli investimenti. Quello della creazione di ristretti club deal e società d’investimento, che replicano il modello del private equity, ma che si concentrano su operazioni di piccola-media taglia e che hanno una caratteristica in comune: uniscono le competenze di imprenditori e manager.
Un caso, recentissimo, come evidenziato da MF-Milano Finanza è il progetto che vede coinvolti Nerio Alessandri (Technogym ), Claudio Costamagna (ex Goldman Sachs e Cdp) e Rosario Bifulco (in uscita da Mittel ). Un concetto quello di club deal che in Italia è stato fatto decollare da Gianni Tamburi , il banker al vertice della Tamburi Investment Partners.
«In un contesto di mercato come quello attuale la messa a fattor comune delle competenze di industriali e dirigenti d’azienda e manager di fondi è sicuramente un trend di mercato da tenere in considerazione», sostiene Paolo Mascaretti, partner Kpmg e responsabile del settore private equity. «Siccome i fondi, che sono sempre più internazionali, si stanno focalizzando su una fascia di operazioni di maggiori dimensioni dove vi è la possibilità di ottenere fees più elevate», prosegue Mascaretti, «questa nuova leva di imprenditori cerca dei qualificati professionisti con i quali dare vita a progetti per investimenti di taglia inferiore. Oppure chiamano manager di comprovata esperienza del private equity per affidare loro la gestione dei family office».
In questo senso, i Pesenti con Italmobiliare e il fondo Clessidra operano parallelamente sul mercato: la holding ha speso 140 milioni per il 60% Caffè Borbone e altri 60 milioni per il 27% di Lampogas. «Oggi c’è una maggior offerta di denaro alla ricerca di ritorni maggiori rispetto alle diversificazioni tradizionali di portafoglio», dice Mascaretti, «ma c’è anche la necessità per le pmi di crescere. Questa nuova modalità d’azione può essere un modo per canalizzare risorse mirate a favore di aziende che devono svilupparsi. E in questo senso un club deal o le boutique d’affari possono fronteggiare queste necessità».
Chi, da tempo dal mondo del private equity è passato agli investimenti diretti sono storici nomi quali Paolo Colonna (ex Permira) e Stefano Miccinelli (ex Investitori Associati) che ora sono attivi sul mercato rispettivamente con Italian Design Brands (partecipata anche da Fabio Sattin) e Srm Holding. Chi guarda con attenzione alle pmi è Gencap Advisory di Michelangelo Mantero (ex Vestar e Merrill Lynch) che ha soft commitment da parte di famiglie imprenditoriali alle quali propongono operazioni mirate.
Un altro esempio è Bravo Invest fondata da Mauro Vacchini e Fabio Galli che ha nel mirino aziende-target da 20-150 milioni di ricavi come Metalbuttons, Mirato, Ds Care, Eurochiller e VivaTicket. O, infine, Augens Capital dei partner Aldino Bellazzini, Stefano Costa, Reza Shahrbabaki, Massimo Puccio e Michelangelo Mantero. (riproduzione riservata)
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