Con i piani collettivi si raggiungono tutti i lavoratori
Pagina a cura di Sabrina Iadarola

T447,4 miliardi di euro: tanto spende lo Stato italiano per il welfare, tra pensioni, sanità, assistenza sociale e politiche del lavoro. Qualcosa come il 54,1% dell’intera spesa pubblica comprensiva degli interessi sul debito. Se si prendono in considerazione anche le spese dedicate ad esclusione sociale, famiglia e housing, oltre a costi di funzionamento degli enti che gestiscono le varie funzioni di welfare, il nostro Paese impiega su questo fronte il 29,9% del proprio pil.

Una percentuale superiore alla media dei 28 Paesi Ue (28,7%) e inferiore solo a quelle di Danimarca, Francia e Finlandia. A cui da alcuni anni vanno ad aggiungersi interventi pensati e sviluppati da soggetti privati, sia profit che non profit, che si inseriscono laddove lo Stato, con il primo welfare di natura pubblica, non riesce ad arrivare. Con esperienze di secondo welfare, appunto. Su tali dinamiche si è concentrato il Terzo Rapporto sul secondo welfare, il documento biennale (2016-2017) curato dal Centro Einaudi. Dal quale emerge come oggi i canali di risposta aggiuntivi, nati in risposta alla forte pressione dei bisogni, rispetto a quelli pubblici, siano diventati veri e propri (nuovi) pilastri del welfare e più in generale del modello sociale italiano. A cominciare da strategie e attività in materia di welfare messe in campo dalle associazioni datoriali verso le imprese, anche piccole e medie, che riguardano l’informazione (attraverso sportelli territoriali) sulle principali norme e regolamenti in materia. Per finire con proposte concrete di welfare, in genere su base locale. Passando, talvolta, attraverso i contratti collettivi. Dove l’inserimento di programmi di welfare potrebbe essere utile ad arginare uno dei limiti più evidenti del welfare aziendale così come pensato finora. E cioè che fosse una prerogativa di determinati settori, di aziende più grandi e meglio strutturate, destinato in sostanza ad una fascia limitata di lavoratori. Per rafforzare, al contrario, l’idea di un welfare aziendale pensato come diritto ancorato al lavoratore, indipendentemente dunque dall’impresa o dal settore di appartenenza. Si pensi, ad esempio, al welfare in seno al nuovo Contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici. Per la prima volta si definisce un piano di welfare per i dipendenti a livello collettivo, oltre agli eventuali benefit aziendali o compresi nella contrattazione individuale. L’impatto economico di beni e servizi è stato quantificato in circa 100 euro annui per ogni lavoratore, che arriveranno a 200 nel 2019. Tra i servizi e i beni rientrano corsi di formazione, borse di studio, corsi sportivi, vacanze studio, servizi di assistenza a figli o ad anziani o disabili, buoni spesa erogati direttamente dall’azienda oppure attraverso convenzioni con enti o aziende esterni (l’elenco completo è stato messo a punto nell’accordo integrativo confederale del 27 febbraio 2017). A beneficiarne possono essere sia lavoratori con contratto a tempo indeterminato che a tempo determinato (superiore ai tre mesi), ma anche lavoratori part-time. Con la possibilità di attivare programmi di welfare da parte di oltre 200 mila imprese del settore (molte hanno già iniziato a farlo), raggiungendo un bacino potenziale superiore di beneficiari pari a 1 milione e 500 mila lavoratori.

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