di Andrea Battista*
Le imprese assicurative da una parte e il variegato mondo digitale denominato insurtech dall’altra sono destinati, più che a sfidarsi frontalmente, a «cooperare per competere», per dirla con il titolo di un libro di management di più di 20 anni fa. Ogni forma di disruption sarà quindi probabilmente per sua natura ibrida, almeno per una lunga fase.
D’altronde in ogni settore industriale i nuovi entranti hanno due opzioni strategiche di fondo per affermarsi: la prima è collaborare con gli operatori già presenti oppure «attaccare» più o meno aggressivamente i cosiddetti incumbent, gli operatori dominanti. Esempio tipico e ricorrente è la vendita diretta rispetto ai business dove la distribuzione è basata su luoghi fisici. Pensiamo solo a titolo di esempio al settore turistico, piuttosto maturo nel processo di ristrutturazione in senso digitale, e a quanto avviene oggi per viaggi e alberghi rispetto solo a 10-15 anni fa; oppure all’evoluzione del settore dell’arredamento dopo l’avvento di Ikea.
Spesso la reazione degli addetti ai lavori in campo assicurativo è del tipo «Nell’assicurazione è diverso». Nel mondo digitale questo approccio rischia però di assomigliare pericolosamente al ben noto «This time is different» di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart in tema di debito, ossia a un errore di sottovalutazione potenzialmente foriero di gravi conseguenze negative. Questo per due fattori: l’impatto identitario della tecnologia dal lato della domanda e l’effetto omogeneizzante dal lato dell’offerta.
Il digitale cambia tutti i clienti e radicalmente, ormai anche senza barriere di età (tutti hanno lo smartphone) e crea così il cliente digitale, soggetto mutevole e imprevedibile, che ricerca ovunque opportunità di acquisto e vuole effettuare le relative transazioni dove, come e quando ritiene. Per il cliente digitale l’influence (chi fa cosa) è più rilevante dell’affluence (chi possiede cosa), per usare i termini di un recente intrigante studio di A.T. Kearney. Dal lato dell’offerta, d’altro canto, tutti gli attori possono scoprire nella tecnologia digitale un enorme potenziale di miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia del proprio modello di business.
Se dunque il mondo digitale, in un modo o nell’altro, è il business di tutti, perché cambia rapidamente tutti i clienti e la configurazione potenziale dell’offerta, è evidente che le compagnie assicurative hanno nel breve un interesse significativo e generale ad allearsi con il mondo dell’insurtech.
Meno ovvio e dibattuto è l’atteggiamento dei giocatori definibili come nativi digitali. Qui a mio avviso lo snodo chiave è un concetto fondamentale della microeconomia e dell’economia industriale: la categoria di barriere all’entrata.
Il termine barriera ha di norma una connotazione negativa ma in questa analisi va inteso in senso puramente tecnico. Se un business è molto regolato, ha ceteris paribus maggiori barriere all’entrata.
Se in un settore la rete di distribuzione è essenziale per esistere e richiede molti anni per essere costruita, vi sono per definizione barriere all’entrata.
Se un’attività richiede elevati capitali da investire, il settore presenta barriere all’entrata.
Se poi un contesto competitivo manifesta tutti questi aspetti assieme in grado elevato, come avviene per quello assicurativo, ciò implica che le barriere per i nuovi entranti sono tendenzialmente assai elevate. Barriere da non intendersi quali ostacoli che derivano da una protezione legale degli incumbent ma che richiamano piuttosto la natura intrinsecamente «monopolistica» dell’innovazione, à la Schumpeter per così dire. La cooperazione dunque entra in gioco come un modo efficace ed efficiente per superare se non abbattere queste barriere, senza far rumore e con poco spargimento di sangue.
Non è affatto casuale dunque che il posizionamento di molti operatori dell’insurtech sia praticamente per definizione cooperativo e che gli incumbent siano proprio i loro clienti target, mentre il modello di rottura, che è il cosiddetto peer to peer è ancora un’incognita tutta da verificare. Molti sono intermediari (Axieme, per esempio), altri trattano big data tramite machine learning e sono service provider (è il caso di Neoinsurance), altri ancora producono servizi da integrare nei prodotti assicurativi, il mondo dell’Internet of Things, alcuni soggetti infine sono un mix di elementi diversi dai contorni non facili da definire (Lemonade).
Se la tendenza è dunque verso il cooperare per entrambe le categorie di operatori, l’equilibrio cooperativo tenderà a emergere come esito prevalente e probabile del gioco competitivo. Ne scorgiamo già a mio avviso i primi segnali. E il sospetto è che sarà win-win per tutto il sistema. (riproduzione riservata)
*ex amministratore
delegato di Eurovita
Fonte: