«All’incontro organizzato nelle scorse settimane da una delle principali banche italiane c’era la fila dei rappresentanti dei fondi per incontrare le imprese. Una scena mai vista a queste latitudini». Il commento di un avvocato che da anni segue il comparto del private equity è indicativo del clima che si respira nel settore.
Superati i timori sulla tenuta del debito sovrano, e alla luce della facilità di accesso al credito per i grandi investitori istituzionali, l’Italia è divenuta uno dei principali target di investimento.
Complice la presenza di multipli inferiori alla media europea per via della lenta ripresa. Il boom di operazioni realizzate negli ultimi mesi conferma le sensazioni: il Fondo Alpha ha siglato un accordo per fare il suo ingresso, con una quota del 20%, nel capitale di Optima Italia (al lavoro gli studi Pedersoli e De Rosa), mentre Blackstone è stato affiancato da Linklaters nella firma di un accordo di ricapitalizzazione a favore di Fintyre (supportato da White & Case).
Migliora il clima per gli investimenti. «Da oramai un anno i fondi italiani hanno avvertito un cambiamento drastico nel processo di raccolta. L’Italia è ritornata sui radar degli investitori stranieri e molti tra questi allocano una parte degli importi da investire nel Belpaese sul private equity», osserva Andrea Accornero, socio responsabile del dipartimento corporate dello studio legale Simmons & Simmons. «In passato era difficilissimo vedere fondi pensione americani che sottoscrivevano quote di fondi private italiani, in quanto vi era il timore diffuso di investire in euro e rischiare di vedersi restituire annidopo l’investimento in lire.
Questo rischio si è dileguato e i grossi investitori stranieri sono tornati». Anche se recuperare i livelli pre-crisi non sarà facile. Dopo la decimazione degli scorsi anni, oggi in Italia operano poco più di 100 operatori, metà dei quali attivi sugli investimenti, contro i 200 della Spagna. Di positivo c’è che la ridotta concorrenza permette a chi ha resistito di avere maggiore appeal.
Focus sulle medie aziende. Una conferma in tal senso arriva dai dati dell’associazione di settore Aifi. Il primo semestre si è chiuso con 43 operazioni, in linea con lo stesso periodo del 2014, in sensibile crescita rispetto alle 34 del 2013. Gli investimenti hanno riguardato nell’81% dei casi operazioni di buy out (condotte dai manager, spesso con un supporto finanziario esterno), un dato nettamente superiore al 55% registrato nella prima metà del 2014. Tornando al periodo gennaio-giugno 2015, il 12% delle operazioni rientrano nella categoria expansion (rafforzamento patrimoniale per espandere il business), con un 5% di turnaround (acquisizione di aziende in difficoltà con l’obiettivo di ristrutturarle) e il restante 2% di replacement (quando l’investitore nel capitale di rischio si sostituisce a uno o più soci non più interessati a proseguire l’attività). Inoltre, si registra un significativo incremento, dal 10 al 19%, del numero di add-on, vale a dire di società acquisite dai fondi private per rafforzare la presenza in un determinato filone di business.
Quello che non cambia è la taglia delle imprese target, con il fatturato medio che si attesta intorno ai 65 milioni di euro.
Del resto, le aziende di medio-piccole dimensioni sono sempre state quelle più interessanti per gli investitori istituzionali, che possono trovare già un organico strutturato, ma anche ampi margini per generare efficienza. In termini di distribuzione settoriale, si registra un crescente interesse verso il comparto dei beni di consumo (28% delle operazioni), che eguaglia l’industria. Goffredo Guerra, partner di Dla Piper, responsabile del dipartimento corporate, sottolinea il ricorso crescente ai cosiddetti platform deals ossia «l’investimento in una società magari anche di dimensioni inferiori a quelli normalmente oggetto dell’interesse del fondo, da usare come punto di partenza per la creazione di un gruppo nel settore mediante successivi investimentiadd-on. Il fondo mira quindi a creare valore con l’aggregazione di più realtà piuttosto che con la crescita di una sola». Oltre a questo, Guerra rileva una tendenza degli investitori a specializzarsi mediante la creazione di fondi dedicati. Questo aspetto si riflette anche nella scelta dei legali, «dove assume maggiore rilevanza l’esperienza del professionista in tale specifico settore e quindi il valore aggiunto che potrà dare prestando la propria assistenza sulla base delle proprie conoscenze ed esperienze». Il legale viene tipicamente coinvolto in tutte le fasi dell’operazione, «spesso anche in quella di analisi di un possibile investimento, laddove sia necessario comprendere bene eventuali problematiche di struttura societaria, identificare la migliore struttura dell’operazione o capire bene il regime legale del settore dove opera l’impresatarget», sottolinea l’avvocato di Dla Piper, che tra le altre cose ha assistito il Fondo Strategico Italianonell’investimento in Rocco Forte Family, holding di diritto inglese attiva nel settore turistico-alberghiero. «In ogni caso, il grosso del lavoro legale si svolge nella fase didue diligencee nella redazione e negoziazione della documentazione contrattuale»..
La ricerca di finanziamenti non bancari. I dati di mercato trovano conferma nell’analisi di Francesco Saltarelli (Sts Deloitte): «I segnali positivi del primo semestre si stanno confermando con volumi interessanti e transazioni a multipli più elevati rispetto al recente passato. Prosegue la grande attenzione al settore delle Pmi, soprattutto quelle con vocazione internazionale». In particolare, l’esperto segnala il dinamismo del comparto healthcare, e in generale di tutto il sistema industriale con sbocchi in ambito medicale, della meccanica di precisione, del luxury e del food. «Sono ricomparsi i processi di vendita attraverso aste competitive, ai quali nel passato gli operatori del private equity erano restii a partecipare», aggiunge. Saltarelli vede novità anche per quel che concerne le forme di finanziamento, con un minore ricorso alla leva finanziaria di origine bancaria, a favore di nuove forme di raccolta dei capitali come l’emissione dei mini-bond. Questo anche grazie alla nascita di alcuni fondi specializzati nelle emissioni delle società non quotate di ridotte dimensioni. Per quanto concerne i fondi italiani, Saltarelli segnala come positiva la loro capacità di «compensare le difficoltà di sottoscrizione degli investitori istituzionali italiani (su tutti, le fondazioni) con un rinnovato interesse per il nostro Paese da parte di soggetti non residenti».
Aian Abbas, partner di Ashurst e responsabile del dipartimento corporatein Italia, si attende risultati positivi anche per l’ultimo scorcio del 2015: «Siamo assistendo numerosi operatori esteri nel loro ritorno in Italia», spiega. Attribuendo il merito del recuperato appeal non solo alla crescente competitività e facilità di accesso al mercato del credito, ma anche alla relativa stabilità politica che sta attraversando il nostro Paese e ad alcune recenti riforme emanate («tra cui, il decreto competitività, iljobs acte l’investment compact»).
Tra gli altri, Ashurst ha assistito Oakley Capital nel suo primo investimento in Italia, attraverso l’acquisizione del portale Facile.it, piattaforma web di comparazione prezzi in Italia nel settore assicurativo e delleutilities. «Registriamo attività anche in settori come istituzioni finanziarie,energy,large retail, farmaceutico, ospedaliero, aerospaziale, marittimo, industriale,food & beverage, turismo e cultura», aggiunge. «Notiamo poi un incremento delle operazioni di m&a nel settore delle infrastrutture, specie per quanto concerne quelle di trasmissione elettrica e anche nel compartooil & gas».
Il ritorno della leva. Tra i tassi ufficiali ai minimi storici e il quantitative easing della Bce, l’accesso al credito non è certo un problema per gli investitori istituzionali. «Le banche sono tornate a erogare credito con leverage interessante e questo ha spostato il mercato più verso tradizionali operazioni di buy-out anziché verso operazioni più complesse studiate nel passato», spiega l’avvocato Claudio Cerabolini, partner del dipartimento corporate m&a di Clifford Chance e responsabile per il private equity. «Molti fondi domestici hanno inoltre concluso di recente in modo positivo le loro campagne di raccolta, grazie anche alla migliore percezione che il mercato internazionale ha del nostro Paese. Questa aumentata capacità in termini di equity ha contribuito a far spostare il focus di alcuni operatori più verso operazioni di maggioranza, con minore complessità tecnica». La maggior semplicità operativa e la maggior fiducia nei mercati comporta tuttavia che la gran parte degli asset interessanti vengano messi all’asta per massimizzare il prezzo. «Questo è un problema per i fondi», riflette Cerabolini, «in quanto, oltre all’esigenza di acquistare a prezzi vantaggiosi per poter avere maggiori chance di rendimento nel medio periodo, sono tradizionalmente svantaggiati quando competono con acquirenti industriali, capaci di valorizzare fin da subito e prezzare possibili sinergie future e sostenere maggiori costi anche se l’asta non ha esito favorevole».
Rischio assicurato per gli operatori. Uno dei fenomeni nuovi nel mercato del private equity è il ricorso crescente alla warranty & indemnity insurance (w&i). Si tratta di polizze che consentono di trasferire al mercato assicurativo il rischio associato a possibili violazioni o inesattezze delle dichiarazioni e garanzie comunemente rilasciate dal venditore all’acquirente nel contesto del contratto di cessione di una partecipazione sociale o di un’azienda. «Sottoscrivendo questo contratto il mercato assicurativo si sostituisce al venditore (se la polizza è ottenuta dall’acquirente) o controgarantisce il venditore (se è quest’ultimo ad ottenerla) come soggetto responsabile per la liquidazione di richieste di indennizzo avanzate dall’acquirente in ragione di garanzie rilasciate dal venditore e successivamente rivelatesi non corrette», spiega Stefano Crosio, partner di Jones Day. Il tutto a condizione che l’inesattezza non fosse già nota prima del perfezionamento dell’operazione straordinaria e fatti salvi un massimale ed una franchigia da concordarsi nonché l’esclusione di taluni rischi non coperti. «Inoltre», aggiunge Crosio, «la polizza w&i può consentire di prolungare la copertura dell’acquirente in relazione a inesattezze delle garanzie rilasciate dal venditore al di là dei termini di durata delle stesse convenuti nel contratto di acquisizione».
La flessibilità offerta dalle polizze w&i, rende queste ultime un prodotto molto interessante per un fondo di private equity, specialmente nel contesto di operazioni di exit realizzate tramite cessione a un investitore non finanziario. «La polizza consente al fondo cedente di offrire all’acquirente un set di garanzie più completo e una durata maggiore (in tal modo massimizzando il prezzo offerto dall’acquirente ed assecondandone talune esigenze, ndr), trasferendo al tempo stesso in larga parte il rischio alle compagnie assicuratrici, con la conseguente possibilità per il fondo di procedere a una più rapida distribuzione dei proventi della dismissione agli investitori», conclude.Un altro esempio frequente nella pratica è di consentire all’acquirente di offrire al venditore limitazioni alla responsabilità di quest’ultimo per il caso di inesattezze delle garanzie, grazie all’interazione della franchigia e massimale prescelti in polizza con le limitazioni convenute dalle parti nella clausola di indennizzo del contratto di acquisizione.
Multipli sotto la media di mercato. Al di là del ritrovato clima di fiducia sui mercati internazionali, a fare dell’Italia una delle principali aree di investimento per i fondi internazionali è la possibilità di spuntare multipli convenienti. «Se si rapporta il valore delle transazioni all’Ebitda, le aziende italiane vengono valutate su livelli inferiori a quelli di altri Paesi, soprattutto se ubicati a latitudini più prossime al Polo Nord», sottolinea Andrea Accornero. «Qualcuno ha addirittura cercato di spostare le sedi legali delle nostre aziende per poter vendere a un multiplo superiore di uno o due punti in più, arrivando così a 10 o 11 volte l’Ebitda».
I coinvestimenti riducono i costi Marco Gubitosi, partner di Legance, segnala il crescente ricorso ai coinvestimenti tra general e limited partner per consentire gli investimenti diretti nel capitale di rischio da parte soggetti come family offices,ultra high net worth individualse investitori istituzionali. «In questo modo si può beneficiare di costi inferiori per il perfezionamento dell’operazione, in quanto spesso tali operazioni non contemplano, oppure vedono ridotti in modo significativo, i costi dettati dallemanagement feese dalcarried interest».
Concretamente, spiega Gubitosi, le operazioni di investimento diretto o di co-investimento comportano l’ingresso da parte del limited partner nel capitale sociale della società oggetto di investimento, nell’ambito di un’operazione proposta dal general partner del fondo in cui lo stesso l’altro operatore ha anche investito.
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