La crisi dell’Europa lascerà un’amara eredità ai giovani. È l’allarme che l’Ocse lancia nel rapporto Pensions at a Glance, secondo il quale chi entra oggi nel mercato del lavoro dovrà aspettarsi una pensione più bassa rispetto agli standard attuali, e i precari sono addirittura a rischio di povertà. È la conseguenza delle riforme pensionistiche degli ultimi 20 anni in buona parte dei Paesi aderenti all’Organizzazione. «Lavorare più a lungo può compensare in parte le riduzioni», si legge nel rapporto, «ma in generale ogni anno di contributi produce benefici inferiori rispetto agli anni precedenti le riforme», sebbene «la maggior parte dei Paesi abbia protetto dai tagli i redditi più bassi». L’Italia non fa eccezione. Chi ha cominciato a versare contributi dopo il 1996 è soggetto a un sistema contributivo che non prevede trasferimenti dello Stato a integrazione della pensione. Questi lavoratori pagheranno a caro prezzo la recessione in cui si dibatte l’Italia, perché il montante è rivalutato in base alla crescita del pil. Ma la maggior preoccupazione è la precarietà del posto di lavoro. Il sistema contributivo lega l’assegno ai contributi versati durante l’intera vita lavorativa. Qualsiasi periodo di inattività costa. I mancati contributi pesano sia sull’assegno che sulla data in cui si potrà lasciare il lavoro. I giovani precari che arrivano a un contratto a tempo indeterminato solo dopo molti anni dovranno fare i conti con assegni risicati e una pensione sempre più lontana. Non va meglio ai 40-50enni che in questi ultimi anni di crisi hanno magari dovuto cambiare lavoro, ma senza un passaggio diretto. Anche in questi casi i mesi o gli anni di inattività significano una pensione più leggera. Peraltro i buchi nei versamenti allontanano la data in cui si può dire addio al lavoro. Come se non bastasse, andare in pensione più tardi comporta accettare coefficienti di conversione in rendita meno generosi.
Certo, la riforma era necessaria e ha reso il sistema italiano più sostenibile. Con una spesa previdenziale pari al 15,4% del pil, rispetto a una media Ocse del 7,8%, l’Italia aveva nel 2009 il sistema pensionistico più costoso di tutti i Paesi industrializzati. Con la riforma Monti Fornero del dicembre 2011, «l’Italia ha fatto un passo importante per garantirne la sostenibilità», sottolinea l’Ocse. In base alle statistiche dell’Organizzazione, la spesa per le pensioni in Italia è salita dal 10,1% del pil del 1990 al 15,3% nel 2010 e in prospettiva al 14,9% nel 2015, che restano sempre i livelli più alti dell’Ocse. Nel 2045 la spesa è prevista risalire al 15,9%, ben oltre la media (11,2%), ma inferiore a Lussemburgo, Slovenia, Austria e Belgio. Peraltro i contributi previdenziali in Italia sono al top dell’area, il 33% del della retribuzione totale lorda, pari al 9% del pil e al 21,1% del totale delle tasse. La media è del 19,6%, il 5,2% del pil e al 15,8% delle imposte. Mentre i salari italiani sono bassi. In media in Italia nel 2012 un lavoratore percepiva 28.900 euro, 38.100 dollari, contro i 42.700 dollari della media Ocse, su cui pesano i 94.900 dollari degli svizzeri e i 91 mila dei norvegesi. La pensione oltre a essere più magra, è anche più lontana. Le riforme hanno infatti posticipato l’eta pensionabile, che «sarà di almeno 67 anni entro il 2050 nella maggior parte dei Paesi», si legge nel rapporto. «Altri Paesi legano l’età pensionabile alle aspettative di vita». In Italia «l’età aumenterà per uomini e donne». Per queste ultime la riforma ha stabilito che l’età pensionabile sarà come quella degli uomini, 66 anni, entro il 2018. Tra il 2018 e il 2021 passerà a 67 anni. (riproduzione riservata)