Dal prossimo 1°gennaio 2014 il requisito di vecchiaia per le lavoratrici dipendenti e autonome salirà rispettivamente di 1,5 e 1 anno, fino a raggiungere dopo altre due revisioni (2016 e 2018) il requisito base di 66 anni. Il prossimo adeguamento periodico dei requisiti all’allungamento della speranza di vita avverrà invece nel 2016 e 2019, su base triennale, e poi ogni biennio dal 2021.
Bisogna quindi rifare i conti per capire chi può andare in pensione e con quale assegno.
La società di consulenza indipendente Progetica ha simulato quello che accadrà alle diverse tipologie di lavoratrici in base alla loro età e all’inizio della loro carriera. In modo da individuare quando e con quale assegno potranno andare in pensione. Naturalmente si tratta di stime che scontano un intervallo di oscillazione perché l’attuale sistema previdenziale non consente di sapere con certezza quando e con quanto si andrà in pensione. « I motivi della variabilità sono da ricercare nell’andamento della carriera, del pil italiano e dell’allungamento della speranza di vita», spiega Andrea Carbone di Progetica.
Non stupisce quindi che per chi oggi ha 20 anni «la forchetta è naturalmente ampia, avendo appena iniziato a lavorare: può variare di 4 anni sul momento del pensionamento e 30 punti percentuali sul tasso di sostituzione», dice Carbone. «Sarà importante monitorare nel tempo come evolverà la carriera (buchi contributivi, livelli retributivi) e pianificare da subito un’integrazione pensionistica, anche inizialmente piccola, approfittando del lungo tempo a disposizione»
Per le 30enni e le 40enni le forchette sono ancora piuttosto ampie sia sul quando che sul quanto.
C’è quindi la necessità di analizzare la propria storia contributiva e avere consapevolezza su come potrà evolversi. Sottolinea Carbone: «È necessario il monitoraggio anche del livello di contributi perché la data di pensionamento potrà dipendere dal superamento o meno delle soglie di 1,5 e 2,8 volte l’assegno sociale». Di conseguenza bisognerà aggiornare le proprie strategie di integrazione pensionistica, alla luce dei progetti di vita individuali e familiari e dell’evoluzione delle disponibilità economiche
Infine si può passare ad analizzare la situazione delle lavoratrici 50enni e 60enni per le quali la forchetta è meglio pronosticabile. «In questo caso gli assegni sono un po’ più alti che per le successive generazioni, soprattutto per chi ha una forte componente retributiva nei sistemi misto e contributivo pro-quota», dice Carbone. «Serve il monitoraggio della coerenza tra obiettivi di vita e risorse disponibili e pianificate, nonché del rischio/opportunità di cessare anticipatamente l’età lavorativa» Per tutte le generazioni, la minore aliquota contributiva delle lavoratrici autonome pone queste ultime nell’importanza di affrontare il tema previdenziale, in quanto i tassi di sostituzione sono decisamente più bassi di quelli delle lavoratrici dipendenti.
La tabella nella pagina accanto riporta i requisiti effettivi e attuali per il requisito di vecchiaia, che si sta innalzando da qui al 2018. Dipendenti e autonome hanno infatti differenti tempistiche per arrivare alla medesima parificazione al requisito degli uomini. Ci sono comunque tutte le premesse per valutare con attenzione forme di risparmio che possano affiancare il welfare pubblico. Tanto più che il piano di spending review allo studio potrebbe prevedere tagli al comparto della salute per circa 1-1,5 miliardi per l’anno prossimo. Ma secondo il ministro della salute, Beatrice Lorenzin, il programma in discussione con le regioni comporterà risparmi per 30 miliardi nei prossimi cinque anni, dopo i 22 miliardi di risorse ridotte a seguito delle manovre Berlusconi e Monti. Ecco perchè si parla sempre più di secondo pilastro per il welfare da affiancare alla sanità e alla previdenza pubblica.
Il problema è che sulla carta il secondo pilastro esiste, ma in pratica è molto squilibrato perché se nella previdenza molto è stato fatto per rendere il sistema trasparente e regolato, la sanità integrativa su questi fronti si deve mettere in pari. Come ha affermato Rino Tarelli, commissario della Covip: «Nella sanità le forme complementari possono avere una prospettiva ampiamente positiva, sistemando però un po’ le situazioni». La realtà è infatti molto eterogenea. Un’assimmetria testimoniata anche dai dati. Oggi esistono sul mercato numerosi fondi aperti e chiusi gestiti da casse, assicurazioni private, società di mutuo soccorso. Sono realtà anche molto significative sul piano economico e finanziario. «Ma non esistono dati ufficiali sul numero di fondi sanitari integrativi operanti in Italia», afferma ancora Tarelli. Secondo l’Anagrafe del ministero della Salute, ricorda Tarelli, «nel 2011 risultavano iscritti 293 fondi o casse, di cui l’89% chiusi e l’11% aperti. Ma solo 201 fondi avrebbero dichiarato il numero di iscritti, pari a 3,36 milioni. Il dato però non è certificato perché nel 2007 la commissione ministeriale istituita dall’allora ministro della sanità Livia Turco individuò 500 tra fondi, casse, società di mutuo soccorso per un totale di 6,4 milioni di iscritti e oltre 10 milioni di assicurati. Qual è la verità?», si chiede Tarelli.
Per i fondi pensione sono invece disponibili i numeri ufficiali della Covip che fotografano il settore (grafico in pagina) composto da oltre 6 milioni di iscritti. «Alla lacunosità dei dati si aggiunge un quadro non proprio definito sul fronte normativo»,prosegue Tarelli. Un esempio è la governance. «La trasparenza per gli iscritti è carente», sottolinea il commissario Covip. «In questo quadro particolarmente delicato e che dà la dimensione dell’affidabilità del rapporto tra iscritto e gestore ciascuno si regola per conto suo: c’è chi si comporta con grande scrupolo, chi invece con maggiore frettolosità. Questo quadro, così com’è, destituisce di credibilità tutto quello che finora è stato fatto di buono in questo settore, e non è poco», conclude Tarelli. (riproduzione riservata)