Andrea Greco
Milano L asciarsi alle spalle la banca di sistema, costruire quella di domani. Intesa Sanpaolo cambia pelle. Oggi è facile datare l’evento ai due consigli di mercoledì, quando nell’archiviare un altro trimestre complesso si è aperto il quaderno del piano industriale, che sarà presentato nella primavera 2014. L’ultimo documento strategico – con annessa ricapitalizzazione da 5 miliardi – fu il 6 aprile 2011. Un altro mondo, in cui la parola spread la conoscevano forse un migliaio di italiani, e gli ottimisti intravedevano gli albori della ripresa dalla crisi subprime. Le cose sono andate altrimenti. La più radicata banca del paese, se da un lato s’è trovata esposta sul famigerato “sistema” e sui suoi network, non s’è però fatta sorprendere su un aspetto oggi centrale come la solidità patrimoniale. Un common equity Basilea 3 dell’11,2% a settembre – e in crescita – le consente di affrontare i necessari cambiamenti senza scossoni. Di seguito quel che si prospetta nei prossimi mesi, a giudicare da dichiarazioni, numeri e quel che si muove dietro le quinte. Piano strategico e nuova centralità dei territori Si racconta in banca che giovedì, l’indomani dei consigli, è arrivata via mail a 6mila responsabili la survey con cui l’ad Carlo Messina intende consultare i livelli operativi della piramide interna. Una sorta di referendum per ascoltare la base e istruire il piano strategico. Che sarà annunciato a primavera, ma
si scrive adesso: a dicembre potrebbe già essere agganciato al budget 2014 da diffondere a inizio anno. L’indiscrezione fa il paio con la prima slide della presentazione contabile scelta mercoledì dal capoazienda: un tavolone di 19 manager («squadra coesa e motivata»), claim «le nostre persone sono il principale fattore di successo». Sfrangiato del marketing interno, emerge lo sforzo di Messina di ricompattare le righe, dopo l’annata di Enrico Cucchiani, uomo solo al comando che ha mandato in tilt i primi riporti della banca. “Squadra” qui vuol dire soprattutto “territori”: leader per distacco del retail banking italico che arranca con rese poco sopra zero e che Messina vuol rilanciare con vigore. Da quanto detto in trimestrale, le principali azioni saranno la riduzione da 7 a 2 delle società prodotto del credito industriale (ci saranno solo Mediofactoring e Mediocredito italiano) e la «significativa riduzione» delle 16 banche locali (spesso con distinti cda e direzioni generali). Le strutture centrali saranno snellite e gli attuali 22 riporti di sede scenderanno a 6. Stanti le già annunciate chiusure di 1.300 filiali, e l’apertura di 500 filiali fino a sera e il sabato, potrebbe vedersi anche un rilancio del progetto multicanale, con nuovi investimenti assenti da tempo. Poiché gli impieghi di Bdt rappresentano il 61% del totale (con l’82% delle rettifiche su crediti), e vi lavorano tre quarti dei dipendenti totali, è evidente che riportare Bdt a una redditività «in linea con il costo del capitale » sarà la vera sfida futura. Oggi il Roe dei territori è sotto il 2%, come quello medio di gruppo. Merrill Lynch ha stimato che proiettando i dati dei nove mesi su un costo del rischio “normale” (indicato in 75 punti base, metà dell’attuale) il traguardo del 10% di redditività non appare così remoto. Tuttavia il costo del credito non è variabile in mano a Messina & C, come mostra la trimestrale e come scrive Kepler Chevreux, che ha tagliato le stime di utile 2013-2015 temendo «ricavi e costo del rischio presumibilmente sotto pressione per altri due anni». Lo stesso management sembra puntare più su ulteriori tagli di costi e sulla spinta a fonti commissionali di ricavo. Meno lavoro si prevede sulle altre divisioni di business, meno tormentate negli ultimi anni e meno esposte alla congiuntura. A partire dal Corporate investment banking, che contribuisce per circa metà dei risultati pre-tasse di gruppo (3,56 miliardi nei nove mesi), a partire dai 390 milioni di netto realizzati da Banca Imi. Via dalla banca di sistema La disputa di sapore vagamente nomina-listico tra “banca di sistema” (conio geronziano, forse assimilabile al “banca per il paese” adottato anni fa da Corrado Passera) o “banca nel sistema e per il sistema” – puntualizzazione recente di Giovanni Bazoli – è già materia da storici. È un fatto che nella funzione di primo istituto del paese Intesa Sanpaolo si sia affastellata di crediti e partecipazioni che in cinque anni di crisi hanno creato svalutazioni e problemi. Nell’ottobre 2008, a un mese dal crac di Lehman, Repubblica segnalava “dieci spine” per la banca citando Safilo, Stefanel, Pininfarina, Risanamento, Ipi, Aedes, Tassara, Tiscali, Telco, Coin come partite a rischio. Diversi di quei dossier ancora pesano sulla redditività del gruppo: tra 2011 e 2012 l’avventura telefonica è costata 367 milioni di svalutazioni, 113 milioni l’aver puntato sull’immobi-liarista Zunino (Risanamento). Va aggiunto un centinaio di milioni di svalutazioni Alitalia, ultima avventura “di sistema” del Passera banchiere, e di cui rimane un 10% azionario. Anche il 27% di Sirti, il 20% di Ntv e le quote in Nh Italia hanno portato, o provocheranno, stralci di crediti o capitale. Poi c’è il 5% di Rcs, da poco ricapitalizzato e in cerca di nuovi assetti stabili. Certo ci sono anche dossier a lieto fine: il 5% di Prada accompagnata in Borsa a Hong Kong è la più citata dai manager, ma non l’unica. Al di là delle dichiarazioni – che rivelano un approccio più distaccato al portafoglio per l’ad Messina e il presidente del Cdg Gian Maria Gros-Pietro, di fianco a rivendicazioni di “continuità” espresse da Giovanni Bazoli – contano i fatti. E un fatto è la cessione dell’1,3% di Generali, che approfittando del rally borsistico garantirà 82 milioni di plusvalenza, buoni per dare sostanza alle promesse sul dividendo 2013. Se il recupero delle quotazioni proseguisse sarebbe più facile liquidare anche altre partecipate: Telco è in fase di smontaggio, la holding di Zaleski sta per chiudere il terzo riassetto debitorio, Risanamento attende compratori esteri. Il nuovo vertice di Ca’ de Sass cercherà di alleggerire il portafoglio, vincolando a criteri economici ogni partecipazione e introducendo nei modelli valutativi scenari di choc. Solo le quote che resistono a questi due test non saranno messe in discussione. I rapporti interni tra manager e fondazioni L’avvicendamento Cucchiani-Messina e la nuova agenda promossa dal nuovo ad saranno anche un banco di prova dei nuovi equilibri tra i manager, e tra loro e gli azionisti di peso. La semplificazione di strutture e marchi sul territorio è fatta per non piacere a quegli enti che vi trovano supporti di residuo potere locale, su poltrone e crediti. I più “sensibili” al vecchio campanilismo dovrebbero essere le fondazioni che hanno mantenuto una “loro” banca, tipo Bologna, Firenze, Rieti, Viterbo. Ma anche a Milano, dove operano i “gran lombardi” Bazoli e Guzzetti, non si sta del tutto tranquilli. Il passo falso su Cucchiani, che la componente torinese della banca cerca di addebitare a Bazoli (formalmente fu lui a sceglierlo) apre la via al ritorno della governance tradizionale retta dal cda. I tempi non saranno brevi: si tratta di capire se la scadenza naturale di metà 2015 sarà adeguata, o se avrà la meglio chi tra le fondazioni vorrebbe abbreviare la fine del duale, convinto che stia alla “banca di sistema” come il cda unico alla “banca nuova”. In un tale scenario, il presidente del Cdg Gian Maria Gros-Pietro si muove già con l’autorevolezza del leader. Il lungo curriculum, i pubblici apprezzamenti e il sostegno della Compagnia Sanpaolo potrebbero valergli la futura presidenza unica. Il cortile interno di Ca’ de Sass, la sede di Intesa Sanpaolo a Milano UN VERTICE PER DUE il presidente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli e l’ad Carlo Messina