L’utilizzo massiccio dei cellulari non comporta un ‘probabile’ rischio cancerogeno e, di conseguenza, non può configurarsi come un elemento di certezza probante per il riconoscimento di una malattia professionale. L’INAIL fa chiarezza dopo la sentenza 17438 della Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso col quale l’Istituto ha contestato il diritto alla rendita per malattia professionale (con invalidità dell’80%) attribuito dalla Corte di Appello di Brescia a favore del manager che, per dodici anni, per cinque-sei ore al giorno, aveva usato il telefonino.
“La Suprema Corte non si è pronunciata sul merito della questione – né avrebbe potuto, considerata la natura del giudizio di legittimità – ma si è limitata a ritenere insindacabile la motivazione della sentenza impugnata – spiega Luigi La Peccerella, avvocato generale dell’INAIL. La Corte di Cassazione non ha, infatti, espresso un giudizio sulla nocività dei cellulari, sicché la sua decisione non si traduce in un principio di carattere generale in ordine alla cancerogenicità delle onde elettromagnetiche. Questo significa che la Corte non ha inciso sulle evidenze scientifiche, che, allo stato, non consentono di ritenere le onde elettromagnetiche emanate dai dispositivi di telefonia mobile un ‘probabile’ elemento di rischio tumorale. Quella della Cassazione è una sentenza che ha deciso esclusivamente la fattispecie sottoposta al vaglio della Corte e, dunque, non contiene l’affermazione di un principio di carattere generale per quanto riguarda la cancerogenicità di queste apparecchiature”.
Cosa intende come ‘probabile’ elemento di rischio?
“Mi riferisco al decreto ministeriale dell’11 dicembre 2009 – che dispone l’aggiornamento dell’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi dell’articolo 139 del dpr n. 1124 del 30 giugno 1965 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, ndr) – là dove si opera una distinzione tra le malattie la cui origine professionale è di limitata probabilità e quelle la cui origine professionale è solo possibile e dove le evidenze scientifiche sono ancora sporadiche e non precisabili”.
In base a questa distinzione che cosa ha contestato l’INAIL nel suo ricorso?
“L’INAIL ha posto un problema di carattere squisitamente giuridico, sulla base di quel principio secondo il quale in materia di malattie multifattoriali – dove, per l’appunto, non vi è conferma scientifica – si può ricorrere solo a una ragionevole certezza giuridica, fondata sul criterio di ‘probabilità qualificata’. Del resto è la stessa Cassazione a dirci che questo giudizio deve essere supportato da studi epidemiologici e da dati di letteratura che siano condivisi dalla comunità scientifica. Secondo l’INAIL – nel caso considerato – studi che classifichino le onde elettromagnetiche come ‘probabile’ elemento cancerogeno non esistono: un risultato che è stato confermato anche dai recenti studi condotti dello IARC e dalle raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità”.
Le valutazioni del gruppo svedese Hardell sostengono, invece, che chi fa un uso massiccio di telefonia mobile rischi maggiormente l’insorgenza di neoplasie e la Cassazione le ha ritenuti attendibili…
“In realtà i dati degli studi del gruppo Hardell non sono stati correttamente interpretati, poiché risulta che gli stessi autori si sono espressi solo in termini possibilistici, concludendo per l’assenza di correlazione certa tra uso del cellulare e rischio tumori ed affermando che “saranno sicuramente necessari ulteriori approfondimenti. Va sottolineato, peraltro, come questo stesso ‘possibilismo’ sia stato in generale criticato dalla comunità scientifica internazionale”.
Quindi la sentenza della Cassazione non corrisponde a un’approvazione degli esiti dello studio Hardell?
“La Cassazione si è solo limitata a confermare quanto disposto dalla Corte d’Appello di Brescia, giudicando ‘insindacabile’ l’adesione del giudice di merito alle valutazioni del consulente tecnico d’ufficio sulla base dello studio Hardell e ritenendo tale adesione adeguatamente motivata dalla peculiare intensità e dalla durata dell’esposizione alle onde elettromagnetiche accertate in quel caso specifico”.
Il rigetto del ricorso dell’INAIL, dunque, non significa una sua sconfessione?
“Nel ricorso l’Istituto si è limitato a chiedere qual è il presupposto, in questa materia, che ha valore di diritto per quanto riguarda il nesso di causalità per il riconoscimento della malattia professionale. Basta una preferenza espressa dal consulente tecnico d’ufficio a un singolo studio o, invece, è necessaria l’oggettiva esistenza di una convergenza più vasta, articolata e condivisa dal corpus scientifico che classifichi come ‘probabile’ – e non solo come semplicemente ‘possibile’ – la cancerogenicità delle onde elettromagnetiche? L’INAIL, in sintesi, non ha contestato l’adesione data dal giudice di merito al ctu, ma la conclusione che questi ne ha tratto e che, a nostro parere, è in contrasto col principio di diritto affermato dalla Cassazione. Che il giudice abbia ritenuto affidabile quell’unico studio è secondario, perché l’Istituto non ha posto un problema di motivazione, ma di errore di diritto. Manca, a nostro parere, quel requisito basilare indicato dalla Corte stessa: cioè, l’esistenza di studi scientifici ed epidemiologici condivisi”.
Secondo la Suprema Corte quella del giudice di merito è stata un’adesione motivata…
“La sentenza della Cassazione è di natura eminentemente processuale ed è in relazione alla singolarità di questo specifico caso. Badiamo bene: la Suprema Corte non ha affermato che i cellulari sono cancerogeni ma, più semplicemente, ha detto che il giudice di merito ha accertato – in fatto – che l’utilizzo dei cellulari ha avuto un ruolo ‘concausale’ nell’insorgenza della patologia e che tale accertamento non è sindacabile in Cassazione. Da qui il rigetto del ricorso: un rigetto, l’INAIL lo ribadisce, di natura solo processuale. Pertanto è erroneo interpretare la sentenza come un indiretto riconoscimento della cancerogenicità dei telefonini”.
Questa sentenza influenzerà l’INAIL nella valutazione di un ‘probabile’ rischio lavorativo legato all’uso massiccio dei cellulari?
“La sentenza della Cassazione per l’INAIL non ha in alcun modo scalfito il principio di diritto applicabile in materia di nesso di causalità e il cellulare continuerà a essere considerato come un ‘possibile’ elemento cancerogeno. Si tratta di una distinzione sostanziale e che trova sostegno nelle già citate norme di legge. Nel ricorso l’Istituto, inoltre, sottolineava l’imminenza dei risultati dello studio epidemiologico internazionale ‘Interphone’ coordinato dall’Agenzia internazionale di ricerca sul cancro dell’Oms e finanziato dall’Unione europea. Oggi gli esiti di questo studio sono noti e l’Oms ribadisce come ‘possibile’ la cancerogenicità della telefonia mobile, raccomandando – a livello preventivo – delle sole misure di cautela. Riguardo la ‘probabilità’ del rischio cancerogeno non c’è, quindi, nessuna classificazione ufficiale”.
Lei, fino a ora, non è entrato mai nel merito del caso specifico, sul quale invece la Cassazione si è espressa.
“Come detto, il ricorso dell’INAIL è di carattere prettamente giuridico. Personalmente, tuttavia, non condivido la scelta della Suprema Corte là dove – nel caso in questione – si tiene conto ‘dell’intensità e durata’ dell’esposizione alle onde elettromagnetiche. Se un dato elemento, infatti, non è riconosciuto come cancerogeno, l’esposizione allo stesso, per quanto prolungata, non può assurgere a fattore causale di una patologia tumorale. L’elemento temporale non rileva se manca la rischiosità dell’esposizione”.
Che significa?
“Faccio un esempio. Tra le patologie tabellate figurano quelle causate dal cromo e l’Istituto riconosce, infatti, il rischio delle lavorazioni che espongono a questa sostanza. Ma, naturalmente, occorre contestualizzare e fare le opportune distinzioni. Un albergo che utilizza delle chiavi cromate espone al rischio del cromo il personale che ne fa uso? La cromatura comune non ha alcuna nocività: semmai, è il cromo esavalente, presente in diversi composti di origine industriale, che può avere effetti nocivi. Nel caso delle onde elettromagnetiche si fa riferimento, come detto, a una ‘possibile’, e non ‘probabile’ nocività, e questo principio – a livello giuridico – vale anche per l’esposizione temporale”.
La natura di questa sentenza della Corte di Cassazione è assimilabile, a suo parere, a quella relativa agli infortuni in itinere in bicicletta che, invece, aveva dato ‘ragione’ all’INAIL?
“La natura non è dissimile, in effetti. La Suprema Corte non ha detto che non si può indennizzare l’infortunio in itinere nell’eventualità di un lavoratore che utilizzi la bicicletta. Piuttosto ha affermato che – in quel caso specifico – non poteva essere sindacato l’accertamento fatto dal giudice del merito, che aveva ritenuto non ‘necessitato’ l’uso della bicicletta da parte del lavoratore e, di conseguenza, non indennizzabile l’infortunio che ne era conseguito. Anche lì si è trattato di un’espressione di natura solo processuale, e non di un’affermazione di principio sulla materia generale degli infortuni in itinere”.
Fonte: INAIL