Con l’attuale sistema elevare l’età della pensione di vecchiaia non avrebbe grande effetto sui conti dell’Inps. Perché la maggioranza dei lavoratori lascerà prima, con 40 anni di contributi o col sistema delle quote. Come potranno cambiare le regole. E come correre ai ripari 

di Roberta Castellarin e Paola Valentini

L’abolizione delle pensioni di anzianità fa già parte dell’agenda del premier in pectore Mario Monti. Un intervento che finora, per il no della Lega, il governo Berlusconi non ha affrontato, ma fondamentale per contenere la spesa pubblica, visto che oggi la maggior parte dei lavoratori italiani va in pensione anticipata in base agli anni di contributi versati.

Mentre, come emerge anche dalla elaborazioni di Progetica, le pensioni di vecchiaia riguardano e continueranno a interessare una minoranza. Proprio per questo motivo gli interventi sulla pensione di vecchiaia che il governo ha attuato portando a 67 anni l’età massima per andare in pensione non hanno grandi effetti sulla spesa pubblica. Più importante invece è abolire l’anzianità, anche perché la distanza tra l’età di pensionamento effettiva e quella massima possibile oggi in Italia è maggiore rispetto ai principali Paesi europei. Non solo si va presto in pensione, ma in Italia si vive mediamente più a lungo che altrove. L’Inps quindi deve pagare pensioni per 30-40 anni a chi va in pensione anche prima dei 60 anni. Il tema delle pensioni di anzianità è stato solo parzialmente riformato con l’introduzione del meccanismo di adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita Istat e con l’introduzione delle finestre mobili di attesa di 12 o 18 mesi (dipendenti e autonomi) per percepire la pensione dal momento in cui si maturano i requisiti.

Ma si tratta di interventi che non risolvono il problema delle pensioni di anzianità percepite dopo 40 anni di contributi da chi oggi ha 58 o 59 anni. Secondo gli ultimi dati Inps, nel 2010 su 180 mila pensioni liquidate 125 mila sono state di questo tipo. Le altre 55 mila si riferiscono a lavoratori con meno di 40 anni di versamenti e che hanno lasciato l’impiego con il sistema delle quote.

D’altra parte negli ultimi mesi diverse voci si sono levate a favore dell’abolizione dell’anzianità. Da ultima il ministro della Gioventù Giorgia Meloni che ha dichiarato a MF-Milano Finanza: «Se non si possono proprio cancellare le pensioni d’anzianità, almeno bisogna passarle tutte al sistema contributivo. Qui non c’è nessuno che vuole affamare i pensionati, ma mi sembra giusto che se qualcuno vuole andare in pensione prima del tempo, ci vada almeno con le stesse regole con le quali ci andrà la mia generazione». Il problema è proprio questo. La generazione citata dalla Meloni è quella dei 30-40enni che cadrà nel puro contributivo e quindi percepirà una pensione calcolata in base a quanto versato durante la vita lavorativa. Mentre chi già lavorava nel 1996 da almeno 18 anni può contare ancora sul sistema retributivo che garantisce un assegno pari al 70% dell’ultimo stipendio, indipendentemente da quanto versato.

Tra questi due estremi c’è poi la generazione dei misti che hanno una quota di retributivo e una di contributivo. Questi ultimi peseranno sulle casse dell’Inps dal 2015, quando si esaurirà il retributivo puro, fino al 2050. Si parla quindi di altri 35 anni in cui i conti dell’Inps dovranno sostenere pensioni non del tutto finanziate dai contributi. Ecco perché spostare la pensione di vecchiaia a 67 anni non mette in equilibrio il sistema e pone l’Italia agli ultimi posti nella classifica mondiale dell’indice di sostenibilità del sistema previdenziale calcolato da Allianz global investor, che valuta la necessità di riforme da parte dei governi. In Italia l’età di uscita dal lavoro effettiva resta troppo bassa e lontana dalla vecchiaia, che è 65 anni. Questo accade soprattutto perché prevale il meccanismo dell’anzianità con il requisito dei 40 anni di contributi indipendentemente dall’età. Per la parte delle quote è già stato previsto un correttivo che alza l’asticella dell’età in base alle aspettative di vita.

 

Ma non è sufficiente. Come dimostra l’analisi di Progetica, società di consulenza indipendente, che mostra come anche in futuro l’addio al lavoro per anzianità sarà quello più utilizzato. «Con lo scenario demografico Istat storico il requisito delle quote avrebbe ancora ampiamente applicazione», sottolinea Andrea Carbone di Progetica. «Il progressivo adeguamento alla speranza di vita di tutti i requisiti farebbe invece spostare la sfera di influenza dei 40 anni di contributi anche a coloro che hanno iniziato a lavorare più in là negli anni». Il tutto poi dipende dalla velocità con cui si alzerà la vita media della popolazione. Ma quali sono le strade per abolire anzianità? La proposta di Alberto Brambilla, presidente del nucleo di valutazione della spesa previdenziale, prevede un’accelerazione del sistema quote per arrivare nel giro di qualche anno ad assorbirle in quella di vecchiaia. Mentre il Cerp di Elsa Fornero, nel lasciare flessibilità nell’età di pensionamento, propone «che ai lavoratori che abbiano maturato almeno cinque anni di contributi sia lasciata la libertà di scegliere a che età andare in pensione all’interno di una forchetta compresa tra 63 e 68-70 anni. Potrà essere consentito il pensionamento anticipato a prima dei 63 anni, ma in questo caso la pensione sarà calcolata interamente con il sistema contributivo e l’accesso alla pensione sarà consentito solo se la pensione supera 1,2 volte l’ammontare dell’assegno sociale».

Certo l’ennesima riforma che riguarda le pensioni dei cittadini andrebbe preceduta da una revisione del sistema previdenziale di deputati e senatori che hanno un’aliquota contributiva dell’8,6% contro il 33% dei lavoratori dipendenti. Come ha ricordato Enrico Letta, vicesegretario del Pd, che «qualunque intervento sulle pensioni è condizionato all’obbligo di togliere i vitalizi ai parlamentari, sostituendoli con forme di previdenza dei normali cittadini». Il nuovo intervento in arrivo sulla previdenza pubblica rimette poi in primo piano la necessità di incentivare forme di risparmio previdenziale. Mentre sottolinea Assonime: «Il ridimensionamento delle prestazioni pubbliche implicito nelle riforme già attuate richiede un valido pilastro di previdenza complementare per rendere socialmente sostenibile il sistema». Tra i motivi del mancato sviluppo dei fondi complementari Assonime cita l’insufficiente consapevolezza da parte dei lavoratori del ridimensionamento futuro delle pensioni pubbliche. Da qui anche la necessità di conteggio individuale periodico che indichi quando e con che possibile assegno si potrà andare in pensione. Lo ha chiesto anche di recente il presidente della Covip Antonio Finocchiaro: «Fornire ai lavoratori informazioni sul tasso di copertura e sul livello delle prestazioni che il primo pilastro pensionistico sarà in grado di offrire potrebbe far incrementare gli attuali tassi di adesione alla previdenza complementare». Perché, aggiunge Finocchiaro, «tale compito può essere penalizzante in termini politici e/o sociali. Ma, rinunciando ad adempiervi, le future generazioni di pensionati potrebbero non perdonarci di aver taciuto». (riproduzione riservata)