Le motivazioni della sentenza di appello che ha assolto Mussari, Vigni e le banche estere riscrivono la storia recente della banca senese
Fabrizio Massaro
Preparatevi a riscrivere la vostra memoria, se vi accingete a leggere la cronaca della sentenza di appello su Mps appena rilasciate dai giudici di Milano: perché tutto quello negli ultimi dieci che avete letto sui giornali, visto in tv, sentito nei commenti di politici esperti professori investitori eccetera sul Montepaschi, semplicemente non era vero. Mps non è saltata per aria per colpa delle operazioni nei cosiddetti «derivati» Santorini e Alexandria, che tali non erano. La banca senese non stava neppure perdendo con quei contratti di prestito e pegno costruiti su miliardi di Btp; anzi ci stava guadagnando fino a che non sono state chiuse. Non ci sono stati falsi contabili né manipolazioni del mercato né ostacoli alla vigilanza. Ricordate di aver sentito di un documento segreto ritrovato dentro una cassaforte nella sede centrale di Rocca Salimbeni a Siena? Non era vero, non c’era alcun contratto segreto. Quel contratto era noto a tutti, anche ai revisori. Errori contabili? No, dicono i giudici milanesi di appello: era legittima la scelta di contabilizzare in un modo o in un altro quelle operazioni, così come il valore che gli era stato dato.
I mali di Siena: i crediti deteriorati
Un osservatore esterno potrebbe chiedersi: ma allora il Montepaschi è morto di freddo? No, naturalmente. Intanto non è morto anzi è sopravvissuto fino ad oggi grazie alla forza della rete commerciale resistendo a quasi dieci anni di esposizione mediatica da incubo. Ma non sono state Santorini e Alexandria – così come le altre operazioni sotto la lente dei magistrati come i prestiti «Fresh» e «Chianti classico» usati per finanziare parte dell’acquisto di Antonveneta – a portare la banca senese in quel cono d’ombra dal quale ancora non riesce a tirarsi fuori, dopo 22 miliardi di aumenti di capitali bruciati e un salvataggio da parte dello Stato. Ancora oggi si affanna per lanciare l’ennesima ricapitalizzazione da 2,5 miliardi, operazione però in bilico.
L’istituto è stato trascinato a fondo dalla massa enorme di crediti deteriorati, oltre 42 miliardi a valore lordo, maturati anche a causa di una stretta regolatoria che a Siena ha fatto più male che al resto del sistema bancario italiano. Anche sui crediti deteriorati è pendente un’inchiesta a Milano per presunti ritardi nella loro esposizione a bilancio; una decisione su una possibile richiesta di rinvio a giudizio dovrebbe arrivare a breve. Ma quello che è stato sancito dal giudizio di secondo grado sui cosiddetti «derivati» riscrive davvero la storia di ciò che è accaduto a Siena, dal punto di vista giudiziario ma anche finanziario.
Tutti assolti perché il fatto non sussiste, dagli ex vertici Giuseppe Mussari e Antonio Vigni all’ex capo dell’area finanza Gianluca Baldassarri fino agli altri manager senesi e ai banker di Deutsche Bank e Nomura, con le quali quelle operazioni furono realizzate. Una decisione che cancella le pesanti condanne inflitte in primo grado. Che smonta alla radice l’intera inchiesta condotta dalla procura di Siena e poi da quella di Milano. Che muove pesanti critiche agli ispettori della Banca d’Italia dell’epoca per «grossolanità e approssimazione» delle valutazioni. E svela risvolti inediti che sembrano tratti da un thriller finanziario.
Nelle pieghe dei principi contabili
È un lavoro da entomologi dei principi contabili internazionali, quello svolto dalle giudici Angela Scsalise, Libera Fortunati e Raffaella Zappatini della seconda sezione penale. Hanno sviscerato ogni singolo passaggio delle complicatissime operazioni messe in piedi con le banche estere. I giudici hanno sposato le tesi difensive che lo scopo di Mps era quello di diminuire i rischi in una fase di crisi globale di mercato – tra il 2008 e il 2009 – molto delicata in seguito al fallimento di Lehman Brothers, in cui molte banche si trovarono sull’orlo del crack. Mps «per sopravvivere» aveva deciso di sostituire con dei Btp (dunque con un rischio nei confronti dello Stato italiano) i rischi contenuti in Santorini (che aveva in pancia titoli Intesa Sanpaolo) e in Alexandria (che contenevano una mina vagante, i «cdo squared», derivati esotici molto in voga all’epoca).
Il restatement del bilancio nel 2013
Con Mps travolta da una grave crisi di liquidità a fine 2011 in parallelo alla crisi del debito sovrano italiano che fece cadere anche il governo Berlusconi, a Siena arrivarono Fabrizio Viola come amministratore delegato e, pochi mesi dopo, Alessandro Profumo come presidente. Furono loro a rivelare nell’autunno 2012 la scoperta di un contratto nascosto in cassaforte, il «mandate agreement» che dava senso all’intera operazione Alexandria. Poi nel febbraio 2013 corressero il bilancio facendo emergere 730 milioni di perdite lorde iscrivendo fin dall’inizio un fair value negativo per Santorini e Alexandria. Per i giudici di appello, una decisione opinabile, «non oggetto di alcuna autonoma e indipendente valutazione», né dei consulenti della banca Pwc né della Consob.
Saldi aperti, saldi chiusi
Profumo e Viola, sulla base delle indicazioni di Bankitalia-Consob-Ivass decisero di mantenere a bilancio quelle operazioni «a saldi aperti», come prestiti, pur spiegando che avrebbe potuto trattarsi di derivati («a saldi chiusi»). Una minuzia contabile. Ma da qui nascerà tutto lo scandalo Mps. L’ipotesi dell’accusa, accolta in primo grado, era che Mps aveva bisogno di coprire il buco legato all’acquisto di Antonveneta del 2008 per 9 miliardi e per questo inventò quelle operazioni segrete. Per i giudici di appello si tratta di affermazioni non provate, anzi Bankitalia le conosceva fin dall’ispezione del 2010 e aveva avallato la contabilizzazione iniziale adottata da Mussari e Vigni: «Le passività finanziarie scaturite dall’operazione Alexandria e Santorini “sono state rilevate al costo anziché al fair value, sfruttando facoltà concesse dalla normativa contabile», scrivono i giudici. Insomma, si poteva fare. Ma c’è di più. «Può, allora e in definitiva, affermarsi che la contabilizzazione a saldi aperti… non ha violato alcun “criterio di valutazione normativamente fissato ma, all’opposto, si è uniformata ai “criteri tecnici generalmente accettati” ed applicati dagli operatori del mercato dell’epoca, nonché validati dalle autorità in materia di vigilanza e contabili». nazionali e sovrannazionali». Quest’ultimo passaggio potrebbe tornare utile anche nel processo di appello agli stessi Profumo e Viola, condannati in primo grado sempre a Milano per avere cambiato nel 2015 quella contabilizzazione da «saldi aperti» a «saldi chiusi».
Operazioni vantaggiose
Per i giudici – che accolgono le tesi dei consulenti della difesa di Deutsche Bank – non solo Santorini era un prodotto ordinario, venduto dalla banca tedesca sul mercato e non ritagliato su misura per far nascondere perdite a Mps; «in verità Santorini, lungi dall’avere contribuito ad aggravare la posizione di Mps, ha prodotto risultati economici positivi interrotti solo dalla transazione del 2013 stipulata da Mps con Deutsche Bank, sulla base di una riclassificazione del prodotto come derivato effettuato dalla banca tedesca sulla base dei dati falsati dell’audit». Quali dati falsati?
L’operazione Santorini si riverberò sulla stessa DB che a sua volta a fine 2013 riscrisse a bilancio l’operazione come «derivato», a saldi chiusi. Quel restatement sarà il grimaldello che la Consob userà nel 2015 per chiedere a Mps una nuova correzione del bilancio. Proprio quella per la quale ora sono a processo appunto Profumo e Viola. E che verrà usato anche per condannare Mussari e Vigni. Un processo avviato anche su impulso della Consob, fortemente criticata dai magistrati d’appello: «Perplessità – rectius, preoccupazioni – … desta il fatto che Consob, quale autorità amministrativa indipendente, impieghi le medesime parole utilizzate dai consulenti del pubblico ministero nel contesto di un procedimento penale per spiegare le ragioni del repentino cambio di passo attuato pochi mesi dopo avere affermato in altre note l’esatto contrario», circa la contabilizzazione dei due contratti.
Dietro quella decisione di Deutsche Bank, secondo i giudici di appello, ci sono ragioni «opache» e l’ombra di un clamoroso falso.
Il giallo dell’audit tedesco
Nel dibattimento di secondo grado sono entrati documenti nuovi, scoperti dagli imputati ex banker della banca tedesca solo nel 2021. Sono mail e altre carte risalenti anche a otto anni prima, nonché le carte complete dell’audit che DB ordinò su Santorini e su altre operazioni simili. I giudici riesaminano il contesto storico: «Nel marzo 2013, la Fed aveva iniziato a svolgere approfondimenti sulle procedure adottate da Deutsche Bank per contabilizzare un’operazione di finanziamento quale era il “repo”» (Santorini). Gli americani insomma avevano cominciato a guardare in profondità dentro il bilancio di DB, che in quel momento era una banca d’investimento nella sua massima espansione globale, molto forte anche negli Stati Uniti. Secondo i giudici, che accolgono l’osservazione degli stessi ex banker tedeschi, «Deutsche Bank sceglieva deliberatamente di riqualificare Santorini e altre 36 operazioni come derivati per consentire alle funzioni contabili di aggirare le possibili ripercussioni sul bilancio di Deutsche Bank derivanti dalle problematiche interpretative sollevate dalla Fed, che stava attenzionando l’attività di Deutsche Bank in tutti i campi». Alla base c’è un’audit su quelle operazioni. Secondo i giudici quel report – che ha influenzato anche la procura di Milano – era «opaco». «L’audit nel 2013 aveva finto di scoprire tardivamente il ruolo di Abax (un terzo istituto coinvolto in Santorini, ndr) per neutralizzare un’altra problematica interpretativa sorta dopo che la banca era stata oggetto delle attenzioni della Fed, ovvero il ricorso al cosiddetto “netting”, che avrebbe costretto a rilevanti variazioni di bilancio la banca tedesca che – vale la pena di ricordare – nel solo 2008 aveva perso dieci miliardi di euro, come ricordato nel corso del suo esame da Michele Faissola».
Iscriverli come derivati avrebbe comportato un allentamento delle indagini della vigilanza americana. Dentro l’istituto tedesco, è il quadro delineato dalla sentenza, deve essere esplosa una guerra senza esclusione di colpi: «Il restatement di Deutsche Bank proveniva dalla stessa funzione che avrebbe dovuto effettuare rilievi nel 2008; che, anziché accusare di scarsa trasparenza i propri colleghi, alcuni dei quali avevano già lasciato la banca, avrebbe dovuto assumersi la responsabilità delle proprie valutazioni dell’epoca». C’è materiale per uno storico della finanza. E anche per uno scrittore di legal thriller. (riproduzione riservata)
Rush finale per il quinto aumento in 10 anni. Le carte della banca
di Luca Gualtieri
Il termine ultimo è fissato per martedì 11 ottobre. Solo a quel punto si scopriranno le carte sulla ricapitalizzazione da 2,5 miliardi da cui dipende il rilancio di Mps. Per la banca senese – reduce da sei sentenze giudiziarie, un salvataggio di Stato e tante ristrutturazioni – si tratterebbe del quinto aumento in dieci anni. Complessivamente dal 2011 oltre 20 miliardi di euro sono stati versati nelle casse dell’istituto, che oggi però vale appena 230 milioni di euro.
Fino all’ultimo minuto il ceo Luigi Lovaglio e il pool capitanato da Mediobanca, Credit Suisse, Bofa e Citi cercheranno di convincere il mercato ad aderire all’offerta, bussando sia a fondi di investimento che a operatori industriali. Venerdì 7 veniva dato per imminente l’accordo con Axa, il partner assicurativo francese che lavora con Siena dal 2007. Il gruppo potrebbe iniettare 100-120 milioni mentre procedono serrate le trattative con Anima che, se ci sarà accordo sulle condizioni del nuovo accordo commerciale, potrebbe mettere sul piatto una cifra analoga.
Non solo. Lovaglio e il consorzio stanno discutendo con una platea di fondi e asset manager internazionali come Amundi, Pimco, AcomeA e Melqart. Seduta al tavolo ci sarebbe anche la Algebris di Davide Serra che, negli anni scorsi, aveva investito nel Credito Valtellinese, rilanciato proprio sotto la gestione di Lovaglio. Altro fronte battuto con convinzione in questi giorni è quello dei sottoscrittori dei bond subordinati del Montepaschi. In base ai dati di bilancio di fine 2021, la banca ha in circolazione quattro emissioni lanciate tra il 2018 e il 2020 per un nominale complessivo di 1,75 miliardi. Dalla data dell’ultima assemblea a venerdì 7 hanno questi titoli hanno lasciato sul terreno fino al 19% e le loro valutazioni si aggirano oggi tra il 48 e il 57% del nominale.
I sottoscrittori si trovano quindi a un bivio: rispedire al mittente le proposte della banca rischiando di incassare pesanti perdite in caso di burden sharing oppure sottoscrivere le azioni con una perdita iniziale ma contando sul recupero di valore dei bond. In base alle previsioni che circolano nelle banche d’affari, da questi soggetti il Monte potrebbe incassare fino a 120 milioni. Da ultimo Lovaglio sta sondando il fronte delle fondazioni locali e delle casse di previdenza, alcune delle quali hanno fatto aperture sulla sottoscrizione.
Quali carte può giocare il ceo per convincere i potenziali investitori? In primo luogo ci sono gli obiettivi del piano industriale che prevede non solo una discesa del rapporto cost/income al 57% ma anche un ritorno alla redditività con un utile previsto a 833 milioni. Il raggiungimento di questi target dovrebbe essere agevolato anche dalla svolta della politica monetaria che, grazie all’aumento dei tassi, ridarà slancio al margine di interesse delle banche commerciali.
Sul fronte dei costi un risultato importante è già stato portato a casa: al piano di 3.500 esodi volontari hanno infatti aderito oltre 4.100 dipendenti, anche grazie alle condizioni favorevoli che prevedono da un lato un assegno straordinario da sette anni e dall’altro una remunerazione fino all’85% della busta paga.
Se insomma i presupposti per accettare la scommessa ci sarebbero, va detto che la risposta del mercato è stata sinora molto cauta. Soprattutto perché il contesto generale in cui dovrebbe partire l’offerta rimane incerto. Il timore delle banche del consorzio è che la prudenza degli investitori si traduca in un elevato numero di azioni inoptate.
Per questo, se martedì 11 le adesioni dovessero restare sotto la soglia del mezzo miliardo, il rinvio diventerebbe un’opzione concreta. La prossima finestra utile potrebbe essere quella di dicembre che, se sfruttata, consentirebbe di chiudere la ricapitalizzazione entro l’anno. La scelta non sarà comunque semplice. Se da un lato la banca dovrà discutere la nuova tempistica con la Bce, dall’altro lato bisognerà estendere oltre la scadenza di fine novembre l’assegno straordinario che dà diritto per i prepensionati del Monte a uno scivolo di sette anni.
C’è poi un aspetto di carattere squisitamente istituzionale di cui nei prossimi giorni il consorzio di garanzia dovrà tenere conto: le banche collocatrici vorranno davvero entrare in rotta in collisione con il Tesoro, creando implicitamente un serio problema al nuovo governo? La risposta non è scontata, così come l’esito delle fitte conversazioni che nei prossimi giorni intercorreranno tra i banchieri e via XX Settembre, dove i lavoro sono sotto lo stretto coordinamento del direttore generale Alessandro Rivera. (riproduzione riservata)
La mina Monte può diventare la prima grana del nuovo governo
Il contesto specifico non è favorevole, mentre per il settore del credito si pone il problema ripetutamente sollevato dalle parti sociali – l’Abi, con il presidente Antonio Patuelli e la Fabi, con il leader Lando Sileoni – di rinnovare moratorie e garanzie pubbliche data la crescente pesantezza della crisi. Ciononostante sembra inverosimile che ancora non si sia imboccata la dirittura di arrivo nel caso della ricapitalizzazione Mps, operazione che si sarebbe potuta concludere in pochi giorni, come dimostrano le numerose e complesse operazioni chiuse durante i governatorati di Carlo Azeglio Ciampi e di Antonio Fazio, sia pure in un diverso contesto normativo. Per di più, nel caso del Monte il Tesoro è azionista di maggioranza qualificata: bisogna tornare alla lontana situazione dei banchi meridionali per una condizione con elementi di similitudine. Gli osservatori sottolineano che, per poter fare decollare l’aumento il 17 ottobre, come previsto, occorre innanzitutto che il prospetto sia approvato da Consob entro il 13 ottobre. Ovviamente non è l’unica condizione, gravando ancora un’incertezza sulla sottoscrizione di una parte consistente – qualcuno parla di 600 milioni – dell’aumento rispetto ai 900 milioni che occorre aggiungere agli 1,6 miliardi già garantiti dal Tesoro pro quota (circa 64%). Le cronache hanno segnalato fino a ieri incertezze su quanto potrebbero sottoscrivere Axa e Anima anche perché entrambe sarebbero interessate come do ut des a rafforzare gli accordi commerciali con l’istituto senese. Si torna a parlare dell’apporto che potrebbero dare le fondazioni e le casse di previdenza nei confronti delle quali erano stati avviati contatti che però non sono approdati a risultati concreti. Qualcuno evoca il rischio del «burden sharing» che comporterebbe gravi perdite, innanzitutto, per i bond subordinati. Sarebbe uno smacco enorme per il governo Draghi che finora non è riuscito a venire a capo di questa situazione. È dunque un’eventualità che non si dovrebbe contemplare perché, insieme con il travolgimento degli investitori, darebbe la misura dell’incapacità di risolvere un problema certamente non facile, ma neppure il più complesso da affrontare, mentre si è lasciata incancrenire una situazione con discorsi talvolta contraddittori e con nessuna resipiscenza o comunque revisione dopo il fallimento della trattativa del Tesoro con Unicredit. Proprio muovendo dal rischio teorico del «burden sharing», alcuni ipotizzano una soluzione di sistema nel concorrere alla sottoscrizione dei 900 milioni. La formula adottata è decisamente nuova per questa stagione. Da tempo non si sentiva parlare di soluzioni di sistema, anche perché le altre banche non fanno salti di gioia al sentire prospettata una tale eventualità e il fondo interbancario di tutela dei depositi non potrebbe intervenire per limiti statutari e oggettivi, comunque da approfondire. Se però una soluzione di sistema facesse passi avanti, servirà agire con decisione per giungere a una conclusione. La soluzione di sistema di cui si vocifera potrebbe prevedere una spartizione dell’istituto tra le banche intervenienti che dovrebbe essere, invece, il «prius» dell’esame e non la mera conseguenza di partecipazioni assunte con carattere di urgenza. Il caso Ambrosiano, per quest’ultimo aspetto, non sarebbe automaticamente replicabile per diverse ragioni. Occorre sottolineare che un eventuale burden sharing sarebbe decisamente da evitare. Tesoro e governo devono sentirsi assai impegnati per giungere a una soluzione. Le strade da percorrere sono diverse. Un orgoglio politico-istituzionale dovrebbe portare a evitare di trasferire al nuovo esecutivo la ricerca di una soluzione per Mps: cosa che, diversamente, significherebbe scavalcare il 17 di questo mese con un nulla di fatto o con il frazionamento dell’aumento. Ripercussioni interne e internazionali sarebbero certe. Se il trasferimento dovesse avvenire, la ricapitalizzazione sarebbe una delle prime importanti prove del nuovo esecutivo. Ma si parla anche della possibilità di un nuovo slittamento del varo dell’aumento, che renderebbe concreto lo scavalcamento di predetta data. Si dovrebbe operare per consentire il previsto esodo volontario dei dipendenti della banca oltre la prevista scadenza delle agevolazioni del 30 novembre. Si confermerebbero in questa eventualità il rischio di pesanti ripercussioni sotto il profilo dell’immagine d’un intermediario, il più antico del mondo, con il Tesoro che ne detiene la maggioranza qualificata, tuttavia costretto a rinviare l’attuazione dell’aumento alla stregua di una media impresa con gravi problemi. Deriva da ciò la necessità di un impegno straordinario del governo per arrivare a una soluzione accettabile. (riproduzione riservata)
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