Emerge dall’analisi di Studio Temporary Manager, che l’a.d. Roberto La Caria commentadi Roxy Tomasicchio
Imprese sempre più a corto di liquidità e in difficoltà con i debiti accumulati. Basti pensare che il 16% delle imprese che ha usufruito della moratoria mutui non è in grado di ripagare i debiti pregressi e il 24% delle imprese che hanno chiesto un prestito con garanzia statale è incerto sulla possibilità di riuscire a onorare le prossime rate. Un quadro frutto della pandemia, prima, e degli effetti della guerra in Ucraina, dell’inflazione, della scarsità di materie prime, dell’aumento dei tassi d’interesse e dei prezzi dell’energia alle stelle, oggi.
A far emergere la difficoltà delle imprese è l’analisi di Studio Temporary Manager, che mette in risalto il risvolto della medaglia delle misure emergenziali: chi ha ottenuto prestiti con modalità “semplificata” durante la pandemia, ma non era abbastanza strutturato per pianificare i flussi di cassa in entrata e uscita, oggi deve fare i conti con i debiti. Indubbiamente questa iniezione di liquidità ha supportato le imprese per colmare la carenza di liquidità derivante dal calo di fatturato (62% delle imprese); per effettuare investimenti nella produzione (44%) o anche solo per pagare gli stipendi dei dipendenti. Ma ora sta facendo venire a galla alcune criticità.
E così, quasi un quinto delle aziende che nel 2020-21 ha usufruito della moratoria mutui leasing, concessa durante la crisi pandemica, prevista inizialmente dal cosiddetto decreto Cura Italia (il dl 12/2020) e poi prorogata da diversi provvedimenti (in ultimo la legge di Bilancio 2022,) oggi non è più in grado di rimborsare puntualmente i debiti pregressi.
Roberto La Caria, socio e amministratore delegato di Studio Temporary Manager, spiega a ItaliaOggi Sette quanto raccolto nello studio, condotto su circa 300 manager e ceo.
Domanda. Come commenta la situazione attuale?
Risposta. La scadenza delle moratorie a fine 2021 ha costretto le aziende non solo a onorare il debito pregresso, ma anche al rimborso delle nuove rate contratte per avere liquidità (a debito) spesso in modo troppo semplice durante il Covid, impattando in modo rilevante sui flussi di cassa delle imprese e divenendo talvolta insostenibile. Inoltre, molti imprenditori che hanno contratto prestiti utilizzando la garanzia dello Stato (Mcc/Sace), oggi hanno difficoltà a negoziare riduzioni del debito in quanto il ceto bancario è poco disponibile ad accettare eventuali proposte di stralcio. Questo perché la garanzia rende il debito “credito privilegiato”, ovvero lo Stato ha diritto al rimborso del 100% in caso di procedure concorsuali. Gli istituti di credito non hanno interesse ad aderire a queste richieste, lasciando in una posizione scomoda l’imprenditore. Si riscontra invece maggior disponibilità a prorogare la durata per diminuire l’importo delle rate, generando così sempre maggiori oneri finanziari a carico delle aziende.
D. Nonostante le difficoltà emerse dallo studio, il 61% del campione ritiene poco (51%) o per nulla (10%) probabile che la sua azienda entri in stress finanziario. Quindi la iper-citata “resilienza” c’è…
R. Il campione è costituito da manager e ceo delle imprese intervistate; pertanto, risulta evidente come le aziende dotate di adeguate capacità manageriali presentino una maggiore “resilienza”, ovvero una capacità di far fronte allo scenario in modo strutturato e quindi efficace. Il problema principale, oggetto dell’allarme, riguarda quindi imprese medio piccole o comunque prive di adeguati sistemi di controllo e gestione che affidano la loro capacità di sopravvivenza alla loro ridotta dimensione in termini di costi fissi o alla “inventiva” dell’imprenditore. Tuttavia, la recente emergenza dei costi energetici e il loro impatto sulla liquidità aziendale, specie dallo scorso mese di agosto, sta considerevolmente cambiando lo scenario, portando in sofferenza anche le aziende più “virtuose” di fronte a un fenomeno esterno non controllabile e difficilmente gestibile
D. Cosa devono fare gli imprenditori?
R. È necessario intervenire pianificando attentamente i flussi di cassa in entrata e in uscita sul breve termine, almeno sei mesi, e successivamente a 12 o 18 mesi per capire se si è in grado di sostenere il debito. Bisogna cercare di ridurre il fatturato “tossico”, che di fatto genera solo volumi, aumenta circolante, brucia cassa ma non dà più rendimenti.
D. Cos’è il fatturato tossico: in che modo liberarsene?
R. Il fatturato da solo non misura la salute di una azienda, ma solo la sua dimensione. Si tratta di un dato a quantità e non qualitativo. Un fatturato elevato per sua natura aumenta il circolante generando ulteriore fabbisogno di cassa. Va fatta una puntuale analisi dei margini per prodotto e per cliente, al fine di garantire che ciascun prodotto o comunque ciascun cliente nel suo complesso generi margini sufficienti, basandosi su costi di produzione certi e sufficientemente dettagliati, con l’ausilio di strumenti di controlling industriale per centri di costo, diversi dal tradizionale controllo di gestione economico-finanziario. In caso contrario è consigliato liberarsi quanto prima del fatturato tossico, ovvero che impegna risorse produttive e finanziarie senza generare margine di contribuzione. Va accettato il fatto di dover rinunciare a ordini non remunerativi per la sicurezza dell’azienda.
D. Spostando l’attenzione sulla situazione economica globale fra 6-9 mesi prevale il pessimismo. Malgrado non manchino figure in grado di gestire una eventuale crisi (71%). Cosa preoccupa di più?
R. L’aver intervistato manager e ceo strutturati conferma in queste specifiche aziende la presenza di figure in grado di gestire la situazione. A oggi la maggior preoccupazione si è ovviamente spostata sul costo dell’energia e in parte sulla sua disponibilità in quantità adeguata nei prossimi mesi. Il maggior pessimismo deriva dall’incertezza della situazione e soprattutto dall’idea che la stessa non sia stata affrontata a livello istituzionale in modo adeguato. In particolare, è chiaro il fenomeno speculativo dietro i prezzi energetici, con la salita iniziata già a ottobre 2021, quindi ben prima della guerra. Purtroppo non si sono visti interventi strutturali quali lo sgancio del pun (prezzo unico nazionale, ndr) dalla quotazione del gas che varia secondo l’indice Ttf (Title transfer facility), non si è addivenuti a un price cap sul gas e soprattutto in Italia si sono spesi oltre 40 miliardi di euro per calmierare il costo dell’energia senza alcun incentivo agli investimenti in autoproduzione o semplicemente in norme che permettessero, per esempio, l’installazione del fotovoltaico sui tetti dei fabbricati industriali in leasing senza dover “riscattare” il costo del tetto. Questo fa sentire le imprese “sole” di fronte a uno scenario complesso e fuori dal loro controllo.
D. Solo l’1% (a cui si aggiunge un 10% che ci sta pensando) farà ricorso a procedure di composizione della crisi? Cosa significa?
R. Con le modifiche normative recenti e l’attivazione dell’istituto della composizione negoziata della crisi di impresa è cambiato notevolmente lo scenario delle procedure attivabili in caso di difficoltà. Il nuovo istituto non è ancora ben conosciuto e la normativa di riferimento non è sufficientemente chiara; quindi, c’è l’incertezza del suo funzionamento e delle modalità di applicazione almeno fino a quando non ci sarà sufficiente giurisprudenza in merito. Quindi se solo l’1% riteneva di dover comunque far ricorso a procedure di composizione, il 10% sta attentamente valutando i contenuti e le modalità di funzionamento delle procedure per verificarne l’idoneità a superare le difficoltà. La recente crisi energetica e le prospettive di liquidità dei prossimi tre mesi, unite ai nuovi parametri di allerta, porteranno diverse imprese a ricorrere a procedure di composizione della crisi, in uno scenario che al momento è talmente dinamico da poter difficilmente essere quantificato con precisione.
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