Luca Gualtieri
Saranno due-tre settimane «di passione», come dice un banchiere, quelle che il Montepaschi vivrà da lunedì 17, quando partirà l’aumento di capitale da 2,5 miliardi che dovrebbe valere la salvezza definitiva dell’istituto senese. Dopo aver negoziato fino all’ultimo minuto utile con le banche del consorzio perché firmassero la rete di salvataggio, e con già prenotato mezzo miliardo dei 900 milioni circa di nuovo capitale da trovare sul mercato – gli altri 1,6 miliardi li assicura l’azionista Tesoro – il ceo Luigi Lovaglio deve convincere investitori istituzionali, privati e retail a credere ancora una volta nell’ennesimo piano di rilancio di Mps. Come? Facendo leva sulle sue capacità di banchiere nel realizzarlo e poi nell’opportunità di un’aggregazione che faccia esprimere al massimo il potenziale della banca, anche in termini di valore di borsa. Ma la strada non è sgombra di ostacoli. A Siena, come a via XX Settembre e come a Milano negli uffici delle banche collocatrici, lo sanno bene.
Chi c’è al fianco di Lovaglio
L’aumento può comunque partire con il piede giusto. Dei 500 milioni già collocati, circa 200 arriveranno dal partner storico di Mps nella assicurazioni, la francese Axa. Tra sabato 8 e domenica 9 ottobre il gruppo parigino ha dato un contributo decisivo per sbloccare il negoziato tra la banca e il consorzio anche grazie al rapporto di stima tra il ceo Thomas Buberl e Lovaglio e alla mediazione del deputy ceo Frédéric de Courtois e del presidente esecutivo di Axa Investment Management Marco Morelli.
Altri 75 milioni saranno sottoscritti dal fondo americano Pimco, interessato a che Mps si raddrizzi dato che ha in pancia molte obbligazioni subordinate di Siena. Anima sgr, che ha un accordo di distribuzione dei prodotti di risparmio gestito con Mps, farà la propria parte con 25 milioni. Il fondo Algebris di Davide Serra, molto vicino a Lovaglio, si è impegnato come sub-garante per 50 milioni e altrettanti sono stati garantiti dal finanziere italo-britannico Andrea Pignataro con la sua società Ion Group (Pignataro è anche azionista di Illimity, Cerved e Cedacri).
Altre quote di capitale saranno sottoscritte da Denis Dumont, imprenditore francese che ha già incontrato Lovaglio quando erano, il primo, azionista e, il secondo, ceo del Credito Valtellinese, poi finito al Crédit Agricole dopo un’opa incrementata più volte nel prezzo anche per la determinazione di Lovaglio a veder valorizzato il più possibile l’istituto.
Le banche del consorzio – Mediobanca, Credit Suisse, Citi, BofA, con i joint bookrunner Banco Santander, Barclays, SocGen e Stifel – dovranno quindi cercare i circa 400 milioni che mancano presso investitori istituzionali, fondi pensione e il risparmiatori rimasti fedeli al marchio Mps. Il roadshow partirà già lunedì fra Milano, Parigi, Londra e New York. Un impegno remunerato con commissioni pari al 5% dell’aumento stesso, circa 125 milioni.
Perturbazioni sul titolo Mps
Da lunedì il titolo ballerà furiosamente; sono turbolenze inevitabili in un aumento iper-diluitivo (374 nuove azioni ogni tre possedute), tanto che venerdì la Consob ha emesso un «richiamo di attenzione» sulle tecnicalità dell’aumento: è probabile che «durante il periodo di offerta in opzione delle nuove azioni si verifichi una forte volatilità del prezzo delle azioni dell’emittente, inclusa una sopravvalutazione del prezzo di mercato rispetto al suo valore teorico», scrive l’authority dei mercati. Per questo l’aumento sarà «rolling», nel senso che sarà possibile esercitare i diritti di opzione in ciascun giorno dell’aumento a partire dal terzo e ricevere in via «anticipata» le azioni di nuova emissione, così da poi contenere la volatilità. Ma è comunque inevitabile che il titolo si riduca a valori prossimi allo zero: le stime sono attorno a una ventina di milioni. Ma non è tanto questo ciò su cui gli investitori sono chiamati a concentrarsi, quanto ciò che avverrà dal 13 novembre, una volta che l’aumento sarà concluso.
Un’operazione di sistema
Le difficoltà tecniche dell’aumento sono una spia degli ostacoli che Lovaglio e il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera hanno dovuto superare nel duro negoziato con le banche d’affari perché accettassero di garantire la ricapitalizzazione; ancora poche ore prima della firma non era affatto scontato. A far pendere gli istituti a dire sì sono stati appunto gli impegni formali assunti dagli investitori, che hanno alleggerito il rischio di un accollo di azioni molto oneroso.
A loro volta in particolare i fondi hanno condotto una valutazione «di sistema», così la spiegano i banchieri coinvolti nel dossier: un tracollo di Mps, con il possibile burden sharing in caso di nuovo salvataggio di Stato per 1,75 miliardi di euro con azzeramento o quasi dei bond subordinati, avrebbe scatenato una tempesta sui valori delle obbligazioni e delle azioni bancarie in Italia, danneggiando ulteriormente i fondi, che di quei titoli sono carichi. Insomma, le perdite sarebbero state sicure e maggiori di quelle temute, se l’aumento non fosse partito, ed estese anche alle valutazioni delle altre banche. Al contrario, il successo di questa prima fase dell’operazione ha generato una spinta positiva innanzitutto proprio ai subordinati di Mps, che erano arrivati a rendere fino al 370% del loro valore proprio perché considerati prossimi al default.
Non è poi da trascurare la componente politica. Il governo ha seguito da vicino l’intera partita di Mps; dal canto suo la nuova maggioranza non voleva che il probabile governo di Giorgia Meloni si ritrovasse con la mina Mps esplosa sul tavolo di Palazzo Chigi. L’accordo sull’aumento consente inoltre a Lovaglio di disporre degli 800 milioni necessari per procedere con gli esuberi volontari concordati con i sindacati per circa 3.500 dipendenti (e ben 4.100 hanno fatto richiesta). La sfoltitura al personale alleggerisce enormemente i costi per la banca. Ed avrebbe evitato possibili tensioni occupazionali su Siena se le cose si fossero messe male.
L’equity story di Lovaglio
È da questi punti che Lovaglio dovrà partire per realizzare il piano industriale al 2026 da cui dipende il destino del Monte, anche come banca stand alone. Di fatto ha chiesto agli investitori di entrare in sottoscrizione con una logica tipica del private equity: ristrutturare, risanare, rilanciare, rivendere con plusvalenza. I margini ci sono.
Con il piano industriale Lovaglio vuole cambiare pelle al Monte tornando alla redditività e alla remunerazione degli azionisti, con un utile previsto a 833 milioni nel 2026. Con il taglio al personale otterrà inoltre già a partire dal 2023 un risparmio dei costi pari a 270 milioni su base annua. Il costo di questi esuberi sarà di 800 milioni che arriveranno dall’aumento. Se si decidesse di accogliere tutte le richieste di uscite volontarie, l’esborso sfiorerebbe il miliardo di euro. Lovaglio ci mette la sua storia personale di ristrutturatore, prima a lungo nella polacca Pekao e poi nel Creval. Una banca già ripulita dagli npl, con un taglio secco di personale che aiuterà a riportare il rapporto costi/utili entro il 60% e con un rischio di cause legali mitigato dalle recenti assoluzioni degli ex vertici Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, dovrebbe tornare a esprimere valore e ad essere appetibile per un’aggregazione.
I passi futuri: l’aggregazione
È proprio un m&a lo sbocco finale della strategia di Lovaglio, per favorire l’uscita del Tesoro. A seconda dei casi Mps può essere soggetto aggregante o aggregato, ma in ogni caso è evidente che i candidati per un’operazione tutta italiana sono tre: Banco Bpm, Unicredit e Bper. Quando potrà avvenire? Molto dipenderà dal contesto generale di mercato, da come Lovaglio riuscirà a eseguire il piano stesso, dall’andamento dei mercati. C’è chi si spinge a ipotizzare già la seconda metà del 2023.
Non sembra che questa volta siano state imposte scadenze dalla Commissione Europea. Nel piano precedente la Dg Competition aveva imposto la fine del 2021 al Tesoro come termine per la privatizzazione dell’istituto e questo aveva reso più debole la posizione negoziale dello Stato. Ora il contesto è molto diverso: c’è la guerra, le regole sugli aiuti di Stato sono state allentate, Francia e Germania nazionalizzano imprese senza colpo ferire, quindi le autorità di Bruxelles non dovrebbero essere così fiscali con Mps. Eppure i dubbi restano. Quando mesi fa venne impostata l’operazione – rivelano alcuni soggetti coinvolti al tavolo negoziale – venne ipotizzato di andare incontro agli azionisti, specialmente retail, con azioni gratuite, warrant o altri meccanismi premiali. Ma vennero scartate quasi subito per evitare di dover avviare una trattativa estenuante, e forse infruttuosa, con DgComp.
I rischi
Ma Mps ha i fari della Bce puntati contro. Nell’ambito dell’esame Srep sul patrimonio al 2022, reso noto venerdì 14, la Vigilanza di Francoforte ha espresso un giudizio estremamente cauto sui destini del Monte: l’aumento è «soggetto a un elevato rischio di esecuzione in relazione alla ridotta capitalizzazione della banca e alla delicata congiuntura macroeconomica domestica e internazionale». Un rischio che la faticosa garanzia ottenuta dalla banche ha finalmente mitigato. (riproduzione riservata)
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