I risultati presentati ieri da Mediobanca sono soddisfacenti. Non erano scontati. Ma costituiscono una sorta di cesura l’abrogazione, in sede di elezione degli organi, del vincolo statutario secondo il quale il consiglio di amministrazione avrebbe dovuto comprendere tre dirigenti dell’Istituto e l’altra innovazione riguardante la rappresentatività delle minoranze. Soprattutto la prima decisione costituisce un’opportuna revisione di una norma che si sarebbe giustificata solo in un contesto giuridico diverso, in particolare con il sistema dualistico, che avrebbe visto i manager preferibilmente chiamati a comporre il comitato di gestione, a fronte del consiglio di sorveglianza. Tuttavia Mediobanca, che aveva adottato questo sistema quando la Banca d’Italia, a partire dal 2007-8, ne aveva sostenuto l’introduzione nel sistema bancario, poi negli anni successivi decise di tornare al sistema che si può ritenere tradizionale, così come fecero, a poco a poco, tutte le banche che lo avevano applicato. Da questo punto di vista, si trattò di un indirizzo impartito agli istituti senza una sufficiente valutazione degli impatti giuridici e operativi.
Oggi comunque Mediobanca vive una fase in cui «non è più» l’istituto che nel non vicino passato era con il dominus Enrico Cuccia, ma del pari «non è ancora», l’istituto che, con le sue energie di competenza, di ruolo, di lavoro potrebbe essere. Non è stato facile passare all’oggi da una forte centralità nel sistema, costruita da un demiurgo, nel bene e nel male, con alta competenza e lungimiranza, ma anche con una serie di rattoppi e puntelli, cioè con patti di sindacato, scatole cinesi, incroci azionari, costruzioni piramidali, insomma con il «salotto buono» della finanza, per di più in una situazione in cui sono da tempo venuti meno i privilegi normativi da poter sfruttare: privilegi vigenti, invece, per oltre quaranta anni a partire dalla costituzione di quello che venne chiamato un «ircocervo» per la molteplicità delle sue funzioni. Il peso dei genitori è rilevante e per i successori il criterio di valutazione si fa più severo del normale. Certo, non si può aspirare a (ri)fare di Mediobanca un intermediario che distribuisca le carte nel processo di riorganizzazione bancaria che stenta a decollare, come forse una volta sarebbe potuto accadere: «non è più quel tempo e quell’età» dei protagonisti. Ma un maggiore vigore strategico, una chiarezza di scelte, un protagonismo consentito dal nuovo contesto, una definizione stabile del rapporto con la partecipata Generali che non può più essere il rapporto dell’epoca di Cuccia sono impegni essenziali, insieme con la realizzazione di una governance all’altezza di tali eventuali propositi. Ci si può accontentare dei risultati oggi non disprezzabili, sperando in una loro riproposizione a lungo termine oppure da questi si può partire per rilanciare l’Istituto all’interno e a livello internazionale, muovendo da una base solida oggi esistente. E’ ovvio che quest’ultima alternativa dovrebbe con lungimiranza essere abbracciata. In questo senso va interpretata, sembra a chi scrive, anche l’azione di Leonardo Del Vecchio con Franco Caltagirone, la quale, insieme con quella di altri soggetti, guarda ai due poli, Mediobanca e Generali. Si tratta di fare di questa competizione, perché di ciò si deve parlare, ora manifestatasi, un passaggio per lo sviluppo di entrambi gli intermediari, rinunciando a colpi di retroguardia o a presunte difese degli interessi nazionali o generali, quando non dell’evocazione di «Hannibal ante portas». Dovrebbe essere un confronto di strategie, di innovazione, di efficienza ed efficacia della governance, di migliore rispondenza alla tutela del risparmio e alle esigenze dell’economia da cui tutti trarrebbero beneficio. Le azioni e reazioni sul versante normativo possono essere inevitabili. Ma deve essere chiara la finalità alla quale esse mirano che, in primo luogo, non potrebbe non consistere nel progresso degli intermediari in questione. (riproduzione riservata)
Angelo De Mattia
Fonte: