Paola Valentini
I costi dei fondi sono scesi, ma difficilmente scenderanno ancora nonostante il pressing delle authority e la concorrenza dei prodotti low cost come gli Etf. Un’analisi di Mediobanca Securities condotta nel 2017 su 113 fondi delle quattro società quotate (Azimut, Banca Generali, Banca Mediolanum e Fineco) affermava che le spese correnti medie del campione nel 2016 erano del 3% e arrivavano al 3,63% includendo le commissioni di performance. «Troppo alte a nostro avviso», afferma Gian Luca Ferrari, analista di Mediobanca Securities che quest’anno ha aggiornato l’indagine (sui dati del 2020) allargandola a 330 fondi e aggiungendo Anima. Dall’analisi (riferita ai primi 40 fondi per masse gestite) emerge che i costi totali (le spese correnti, ovvero principalmente le commissioni di gestione, più le commissioni di performance) per Banca Generali sono scesi dal 4,57% al 3,15%, per Banca Mediolanum sono diminuiti dal 3,52% al 2,69%, per Fineco dal 2,52% al 2,33% e per Azimut dal 3,91% al 3,37% (nella tabella pubblicata nella pagina accanto sono riportati i dati per i fondi azionari). Il report sottolinea che il settore ha fatto progressi in questi quattro anni e, in particolare, le due società che prima mostravano le spese correnti più alte, ovvero Banca Generali e Banca Mediolanum, hanno messo in atto interventi significativi per migliorare il pricing e allinearlo a quello più basso di Fineco. Invece in Azimut sono rimaste sugli stessi livelli, scendendo di un solo punto base da 2,73% a 2,72%. «Ora Azimut è la società più cara, considerando i 40 fondi più grandi», rileva lo studio. Grazie all’abbandono di classi di fondi più costose e alla sostituzione di comparti più economici,quelli della nuova sicav Lux Im della banca guidata dall’ad Gian Maria Mossa e delle classi L del gruppo presieduto dall’ad Massimo Doris, le spese correnti sono passate rispettivamente dal 3,89% al 2,28% e dal 2,87% a 2,34%. Un miglioramento innescato dalla concorrenza degli Etf, dalla Mifid II (ha debuttato nel 2018) che ha portato un po’ più trasparenza sui costi e dalle nuove regole delle autorità, ovvero quelle dello Iosco nel 2016 e dell’Esma a inizio 2021, volute per limitare le commissioni di performance e in particolare la pratica di prelevarle anche quando i fondi perdono. Tanto che ad esempio Mediolanum lo scorso anno non ha applicato queste fee ad alcun comparto in rosso (rispetto al 23% dei comparti in negativo che le avevano previste nel 2016). Il problema è che quelle di Esma e Iosco sono soltanto raccomandazioni, quindi l’adeguamento non è stato in tutti i casi rapido e completo. Banca Mediolanum è stata la prima e l’unica a limitare, in anticipo fin dal 2019, le performance fee, mentre in Azimut e l’applicazione completa è scattata quest’anno e in Banca Generali scaterà a inizio 2022 (mentre Fineco non ha mai previsto commissioni di performance).Ecco perché nel 2020, calcola Mediobanca Securities, ancora un 25% dei fondi di Azimut in perdita ha addebitato le commissioni di performance (37% nel 2016) e lo ha fatto il 15% dei comparti di Banca Generali (37% nel 2016).

Le commissioni di performance sono una voce importante nel conto economico. Per questo motivo a partire dal 2019 Banca Generali, Banca Mediolanum e Azimut hanno cercato di compensare gli interventi delle authority europee su tali fee aumentando le commissioni di gestione. I costi addebitati ai fondi vanno però confrontati con i rendimenti: il report di Mediobanca Securities evidenzia (sempre considerando le medie ponderate per il patrimonio dei 40 fondi di maggiori dimensioni per gruppo) che nel 2020, un anno molto positivo per i mercati, i costi totali hanno pesato per il 23% sulla performance lorda ottenuta da Banca Generali (+13,86%), per il 34% su quella di Banca Mediolanum (+7,97%), per il 62% per Fineco (3,59%), per il 58% per Azimut (+5,76%) e per il 50% per Anima (+3,31%). Le commissioni quindi arrivano a erodere anche metà del rendimento, con punte del 90% tra i fondi obbligazionari. In oltre, pur scese rispetto al recente passato, difficilmente ancora, perché in un contesto di tassi ai minimi le sgr devono difendere i margini. Di qui la resistenza nel cambiare le commissioni di performance e la ricerca di nuove strategie per far quadrare i conti. La strada che stanno prendendo la maggior parte dei player è cambiare le modalità con le quali impacchettano i fondi, perché questo ha un effetto diretto sui costi. «Aumentare le commissioni ai clienti è oggi inconcepibile e in molti casi è già stato fatto in concomitanza con il nuovo pricing delle performance fee. Per cui l’unica leva che le società di gestione hanno per migliorare i margini è ridurre la quota di profitti che viene girata agli asset manager esterni», prosegue Ferrari. Ma purtroppo in questo modo il conto finale per il risparmiatore non scende perché alla fine per lui il gioco è a somma zero: aumenta solo la fetta di commissioni che resta alla sgr. I fondi infatti si possono classificare in quattro categorie in base a come sono costruiti e passando dall’una all’altra la redditività varia perché la sgr deve condividere in misura più o meno ampia il conto finale pagato dal sottoscrittore.

La formula dei fondi della casa, ossia quelli gestiti del tutto internamente (è il caso di Azimut), è la più redditizia perché la società trattiene l’intero utile. All’estremo opposto ci sono le sgr che hanno solo fondi di terzi; si tratta del modello meno vantaggioso per il collocatore perché deve dividere una parte delle commissioni con il gestore esterno. Le due architetture hanno caratterizzato l’industria italiana del risparmio gestito nel periodo di boom fino alla fine degli anni 90. Se Azimut appartiene da sempre al primo insieme, nel secondo c’era la Fineco della prima ora, quando a cavallo del 2000 era partita con un supermercato di fondi di terzi. Poi si sono diffuse le gestioni in delega e quelle sotto consulenza. Con le prime si costruiscono fondi white label, ovvero prodotti fatti gestire esternamente in delega ma venduti con il marchio della sgr che li colloca. Fatto 100 il totale dei margini della gestione in casa, questa strada permette di trattenere 85, comunque più del collocamento di fondi di terzi (70). Una quarta alternativa che sta prendendo sempre più piede è l’advisory: si tratta di forma light di collaborazione con gestori terzi che si limitano a fornire alla sgr le linee guida strategiche relative alla costruzione del portafoglio. In questo caso i margini sono del 90-95%, vicini a quelli della soluzione in-house e pari . «E’ il motivo per cui Fineco ha assunto alcuni gestori nella sua sgr Dublino: la spesa che comporta assumere qualche money manager per seguire i portafogli in consulenza non è paragonabile al risparmio che si può ottenere passando dal mandato di gestione a questa soluzione», spiega Ferrari. Dal canto suo «Mediolanum non sta utilizzando più di tanto contratti di advisory, ma piuttosto sta riducendo l’importo delle masse in delega a terzi per far gestire una fetta maggiore ai suoi team, che sono stati potenziati di recente. Unico infine è il modello di Banca Generali, che per alcuni comparti della sicav Lux Im ha scelto di avvalersi della consulenza di partner industriali», tra cui Reply per il fondo sulla blockchain, l’Humanitas per il comparto sulla medtech e Solar Venture per quello sul green energy. (riproduzione riservata)

Fonte: