In Italia mancano due milioni di lavoratori nel settore del welfare. È il numero di addetti che servirebbero per raggiungere la media europea (116 lavoratori ogni mille, contro i 79 dell’Italia). Eurostat ci colloca al penultimo posto nella graduatoria per numero di occupati nell’assistenza, nella sanità, nell’istruzione e nell’amministrazione pubblica. In quasi tutta Europa sono aumentati i lavoratori che assicurano questi servizi, in parallelo con la crescita dei bisogni di cura e istruzione della popolazione. Da noi non è stato così. Ma, come abbiamo sperimentato nel corso dell’emergenza Covid e ora con la riapertura delle scuole, è dagli investimenti in welfare che emerge la qualità di una società. Nel welfare un ruolo sempre più importante lo svolge il Terzo settore: volontariato, associazioni non profit, imprese sociali, fondazioni filantropiche, e altre forme organizzative che popolano una realtà vivace e in costante crescita. Ma che crescerebbe ancora di più con misure adatte e lungimiranti. Cinque in particolare, a mio avviso urgenti e di realizzazione relativamente semplice.

La prima nasce dalla constatazione che siamo un Paese che invecchia e fa sempre meno figli. Nei prossimi dieci anni un italiano su cinque al termine della propria vita non avrà parenti diretti: niente coniuge, figli, fratelli. Con due conseguenze. Avremo un quinto della popolazione che negli ultimi anni di vita (in sempre più casi, decenni) avrà bisogno di cure e assistenza che non potrà trovare nell’ambito familiare, e quindi richiederà più servizi di welfare. E al tempo stesso, ci sarà un quinto della ricchezza del Paese senza eredi, quindi a rischio di dispersione. Un mucchio di soldi, visto che i patrimoni degli italiani ammontano a diecimila miliardi tra beni mobili e immobili. Basterebbe correggere le attuali norme sulla successione, rendendole più progressive (dal quarto al sesto grado, per non generare un’onda di rigetto) e introducendo un meccanismo per favorire le donazioni. Ad esempio, la differenza tra l’attuale aliquota massima e quella futura potrebbe essere destinata a cause sociali o di pubblica utilità, anziché finire nella fiscalità generale. I lasciti diventerebbero così uno straordinario strumento per canalizzare ricchezza privata verso lo sviluppo del non profit come agente del bene comune.

La seconda misura per portare più risorse private al terzo settore è attuare la lotteria filantropica, introdotta nel 2018 e rimasta sulla carta per mancanza del decreto di attuazione. Il fine è il medesimo: incentivare la crescita della filantropia attraverso un meccanismo facile, senza costi per lo Stato e potenzialmente popolare. Una raccolta annuale, attraverso la vendita di centinaia di migliaia biglietti, da destinare tutta a progetti sociali delle organizzazioni del Terzo settore. Meccanismi più o meno simili funzionano in quasi tutti i Paesi europei, dalla Spagna alla Svezia. Perché non attuarlo (finalmente) anche da noi?

Terzo tema, questa volta sul fronte pubblico. Occorre una profonda razionalizzazione nell’uso delle risorse nazionali e europee con la creazione di un fondo unico per sostenere lo sviluppo del non profit. Con procedure di accesso e rendicontazione semplificate e uniformi. Articolato in modo chiaro, che combini strumenti per la capitalizzazione, prestiti agevolati e garanzie, invece della attuale giungla di strumenti e misure concepite per singoli settori o specifiche forme giuridiche.

Il non profit è fatto soprattutto da organizzazioni di piccola dimensione. Se si vuole aiutarle a crescere bisogna andare loro incontro e non sottoporle a percorsi ad ostacoli. Il prossimo ciclo di fondi strutturali europei e le risorse di Next Generation Eu sono l’occasione per creare un fondo strategico per sviluppo del terzo settore. Lo si è fatto per finanziare le startup tecnologiche con il Fondo nazionale innovazione. Sarebbe ora che si facesse anche per il non profit.

Il quarto intervento dovrebbe affrontare il tema dell’accesso al credito. Finanziare un’organizzazione non profit non è la stessa cosa che fare credito ad una piccola azienda, anche se le dimensioni possono essere simili. Occorre un know how specifico per valutarne il merito di credito e accompagnarne i progetti di crescita. In Italia – ma non è diverso altrove – per finanziarsi il Terzo settore ricorre soprattutto a risorse proprie e credito ordinario. Ma i processi di accorpamento dell’industria bancaria stanno lasciando scoperta l’offerta di servizi dedicati a questo settore. La conseguenza è che la soglia resta troppo alta e il potenziale del non profit non riesce ad esprimersi. È il momento di riconsiderare un progetto specifico per favorire l’accesso al credito di questo mondo, anche con un’istituzione dedicata. Magari in collaborazione tra pubblico e privato.

Quinta proposta: rivedere l’impostazione del reddito di cittadinanza prevedendo il coinvolgimento delle organizzazioni dell’economia sociale. A queste potrebbero essere trasferite le risorse a fronte dell’impegno di prendersi in carico i beneficiari, formandoli e inserendoli al lavoro in una delle tante mansioni che un welfare efficace oggi richiede. Sarebbe il modo per cominciare a scalare la montagna dei due milioni di addetti che mancano all’appello. E di adempiere con più efficienza alla funzione di creazione di posti di lavoro che con l’istituzione del reddito di cittadinanza si è dichiarato di voler perseguire, superando le criticità che l’attuale sistema manifesta.

Se non vogliamo restare il fanalino di coda del welfare europeo, attrezzandoci meglio per i tempi che stanno arrivando, dobbiamo cominciare a considerare il terzo settore un asset strategico. Con soluzioni appropriate e innovative. Queste cinque idee possono diventare l’ossatura di un piano nazionale per l’economia sociale da sviluppare con le risorse di Next Generation Eu. Il momento di farlo è ora.

*Fondatore di Fondazione Dynamo e Dynamo Camp
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