Pagine a cura di Federico Unnia
Effetto Covid anche sulla moda. Secondo il Fashion & Luxury Private Equity and Investors Survey 2020 di Deloitte, si stima un impatto di riduzione dei ricavi nel settore per Covid-19 del 20%, causato dalla chiusura dei negozi e dal generale clima di rallentamento dei consumi, sebbene le previsioni sui mercati asiatici e medio orientali siano positive. Il settore della moda è tra i primi ad aver avvertito gli effetti legati al distanziamento e al lockdown.
«I primi contagi in Italia sono avvenuti proprio in corrispondenza con la settimana della moda di Milano, che si stava svolgendo con la quasi totale assenza dei buyer e dei giornalisti cinesi, conclusa con la chiusura al pubblico di molte sfilate», spiega Ida Palombella, partner di Deloitte Legal Società Tra Avvocati a r.l, a capo del dipartimento Data Protection, Tmt and Privacy e responsabile della Industry Fashion Law. «I servizi più richiesti, durante il lockdown, sono stati quelli legati alla rinegoziazione dei contratti commerciali, i contratti di fornitura o di locazione, per tener conto delle circostanze straordinarie causate dall’emergenza sanitaria in corso. Parte rilevante della nostra attività ha riguardato le numerose richieste di assistenza relativa alle nuove e diverse forme di digitalizzazione del business, che in questo periodo molti clienti hanno deciso di lanciare, o semplicemente migliorare e rafforzare, con tutti gli aspetti legali che ne conseguono: lancio di nuovi e-commerce, creazione di piattaforme digitali per gli eventi in streaming, incremento delle attività di digital e social media marketing. Più marginale, ma interessante, il lavoro su riconversione della produzione, ad esempio per realizzare mascherine con design fashion. Come sempre le crisi rappresentano anche un’opportunità di ripensamento strategico del modello di business. Digitalizzazione, reshoring e filiera corta, e, soprattutto, sostenibilità sono temi che hanno subìto un’accelerazione: speriamo che questo momento storico costituisca un’ulteriore occasione di sensibilizzazione su questi temi e di concreta innovazione del settore», aggiunge.
Per Daniela Della Rosa, partner di Curtis, Mallet-Prevost, Colt & Mosle LLP, «le preoccupazioni sanitarie ed economiche incidono fortemente sul retail e a questo si aggiunge la difficoltà di capire come promuovere le prossime collezioni, soprattutto laddove c’erano esuberi di stock già pre-Covid. La maggior parte dei marchi e dei retailers stanno incrementando la presenza online in modo significativo e questo riuscirà sicuramente a sedurre sia quei clienti già avvezzi allo shopping online, che quelli che hanno scoperto l’online durante il lockdown. Le sensazioni e le gratificazioni che si ottengono da un contatto diretto con le collezioni e con gli operatori nei negozi rimangono però unici e per certi versi insostituibili. Il contenzioso e precontenzioso si è concentrato principalmente sui rapporti con i fornitori e proprietari dei punti vendita e dunque legati ai contratti di fornitura e locazioni commerciali. Non sono mancate emergenze legate alla vendita indiscriminata dello stock dalla parte di franchisee. Comunque, salvo emergenze, nel periodo immediatamente post Covid-19 si è evitato il contenzioso che mi attendo aumenterà dopo i mesi estivi. In questo momento c’è investimento sul digitale in particolare per raggiungere quel consumatore cinese. L’applicazione della Cyber security law cinese, cosi come la guerra dei dazi tra la Cina e gli Stati Uniti sta interessando il mercato del lusso che teme una ripercussione negativa per le esportazioni. Non da ultimo, l’impatto Covid-19 ha fatto ripensare alla cerimonia di vendita e catena di produzione stimolando accordi di partnership tecnologica anche da parte dei marchi più refrattari. Ciò per le grandi case di moda, mentre per le più piccole o comunque per quei marchi con un fatturato inferiore agli 800 mila euro – che sono molti – le richieste di supporto sono state molteplici e concentrate sulla ristrutturazione: chiusure di punti vendita, richiesta di finanziamenti, moratorie, procedure concorsuali, e temo ben presto anche licenziamenti collettivi».
Secondo Maria Luigia Franceschelli, senior associate IP di Hogan Lovells, «ogni fase dello sviluppo di un prodotto (ideazione, produzione, promozione e vendita) si scontra oggi con problematiche nuove. Penso al dilagante fenomeno della contraffazione online; alla necessità di definire a priori e a livello globale la strategia di registrazione di un prodotto come design (in alcune giurisdizioni – come la Cina – non è infatti possibile registrare prodotti che siano stati precedentemente divulgati); alle nuove forme di contraffazione (come l’uso parodistico o in chiave artistica di un marchio o un prodotto noto di terzi, non sempre lecito); all’importanza che hanno assunto, anche nello sviluppo del prodotto, i temi della sostenibilità e della diversity, che rendono necessaria una clearance preliminare che riguardi anche questi aspetti. Prima di lanciare un prodotto sul mercato, è importante svolgere un’attenta verifica dei prodotti già in commercio, per assicurarsi che non vi siano sovrapposizioni. Infatti, una volta in vendita, qualunque prodotto è sottoposto – soprattutto grazie ai social – al vaglio del pubblico, dei competitor e di siti specializzati proprio nel trovare e segnalare le fonti che ne hanno inspirato il design, spesso con (non troppo velate) critiche in merito all’originalità del brand. E ciò avviene anche quando la fonte di ispirazione è in pubblico dominio e potrebbe quindi essere liberamente appropriabile da chiunque. Ideare e costruire l’identità del brand sui social, realizzando contenuti nuovi e diversi rispetto a quelli tradizionali, è la prima sfida che ogni società deve affrontare. Questo comporta innanzitutto il dover regolare con appositi contratti i rapporti con consulenti creativi e production companies, per definire chiaramente ruoli, titolarità di diritti e responsabilità. Inoltre, i brand devono essere consapevoli del fatto che la pubblicità sui social è soggetta a regole specifiche (e diverse rispetto alla pubblicità tradizionale) e ha una portata potenzialmente globale. Un contenuto lecito in un Paese potrebbe non esserlo in altri. I social espongono poi i brand all’aperta critica del pubblico. Per questo motivo, i brand temono oggi più i rischi reputazionali di quelli legali».
«Il tema a mio avviso più rilevante riguarda il rapporto personaggio/marca e i relativi valori che si intendono veicolare attraverso la partnership: la disintermediazione che si vive nel settore pubblicitario ha reso sempre più difficile controllare in modo puntuale gli esatti termini della comunicazione d’impresa», dice Massimo Tavella, fondatore di Tavella Studio di Avvocati. «Oltre a questo fondamentale aspetto, ci sono sempre le problematiche connesse alla riconoscibilità della natura pubblicitaria della comunicazione. Tema non banale quando ad esempio l’influencer usa i social fuori da regolati rapporti di committenza. Come proteggere il brand dai rischi connessi alle iniziative e commenti che l’influencer può decidere di sua spontanea iniziativa? Questo è un tema delicato perché, al di là delle basiche istanze di richiedere agli influencer di evitare di rappresentare situazioni che possono ledere diritti di terzi (e di rispettare la normativa applicabile in materia), sussiste tutta una area valoriale (gli obbiettivi di inclusione e di sostenibilità) che sempre più spesso contraddistinguono le aziende virtuose: temi non semplici da normare né da rispettare.
A prescindere dai rimedi contrattuali», aggiunge Tavella, «è fondamentale la fase di individuazione degli influencer, in modo da selezionare coloro che hanno un modus agendi in linea con la strategia comunicazione della azienda. È importante la fase preparatoria della collaborazione. Occorre condividere i messaggi che si intendono veicolare, prestando attenzione alle linee guida adottate dalla azienda per perseguire, oltre agli obbiettivi di vendita, il rispetto dei valori del brand. Non sono aspetti agevolmente gestibili perché spesso si possono avere, in massima buona fede, sensazioni e valutazioni differenti. In tali situazioni appare molto importante disporre di procedure, semplici ma efficaci, per risolvere immediatamente le incomprensioni ed adottare i rimedi necessari».
«Soprattutto nel periodo del lockdown, gli acquisti on line ed i virtual showrooms sono cresciuti anche per i brand più prestigiosi», dice sottolinea Cristina Bellomunno, counsel di Legalitax Studio Legale e Tributario. «Questo comporta la necessità di tutelare eventuali piattaforme in grado di replicare le attività che possono intercorrere tra l’azienda e i buyer o i consumatori finali. Una presenza più massiccia del brand sul web può determinare una maggiore confusione tra l’originale e il fake se tale presenza non viene controllata. Altra problematica connessa con la moda e il web è quella legata all’attività degli influencer. Problematiche possono sorgere ove la distribuzione sia organizzata attraverso un sistema di franchising: è necessario sorvegliare con attenzione l’uso che i franchisee fanno del brand e di tutti gli elementi distintivi dell’azienda (il concept store); il loro comportamento può determinare lo svilimento dell’immagine del titolare del marchio e la perdita di potere attrattivo e la perdita di valore dei segni distintivi di titolarità del franchisor» .
Pier Luigi Roncaglia, managing partner di Spheriens, ricorda che «il livello di litigiosità è alto ed è cresciuto negli ultimi anni. Questo perché le imprese che effettivamente innovano e investono in creatività sono sempre più assediate da competitor (penso anzitutto al fenomeno del fast fashion) che perseguono il modello di business di offrire a basso o bassissimo prezzo prodotti pensati proprio per riecheggiare gli articoli di successo dei brand in voga: competitor che inevitabilmente si muovono sul crinale del lecito. I brand famosi, soprattutto nello streetwear, si sono poi trovati a contrastare un nuovo fenomeno, molto pericoloso, normalmente chiamato «legal fake»: l’insidia è costituita da imprese che – approfittando di lacune di protezione o strumentalizzando delle norme di legge – effettuano dei depositi di marchio fraudolenti per coprire un’attività di commercio di falsi. Il fenomeno, nelle sue conseguenze più estreme, può determinare la situazione paradossale per la quale l’usurpatore viene scambiato dal mercato per l’azienda legittimata a vendere i prodotti originali». La protezione, sostanziale e processuale del prodotto di moda, è sufficiente nel nostro ordinamento od occorrerebbe qualche intervento correttivo? «Gli strumenti giuridici per proteggere i prodotti nel campo della moda non mancano nel nostro ordinamento», dice Roncaglia. «In particolare, il nostro diritto della concorrenza sleale è molto duttile. In qualche recentissima decisione ho colto dei segnali di un approccio della giurisprudenza forse meno severo rispetto al passato nei confronti delle imitazioni: approccio che francamente fatico a comprendere, anche alla luce del principio della libertà di concorrenza. L’armamentario degli strumenti per contrastare le copie nel settore della moda potrebbe arricchirsi anche del diritto d’autore. La Corte di giustizia dell’Ue, nella recente sentenza Cofemel, sembrerebbe infatti aver abrogato il requisito del «valore artistico»: requisito che sinora aveva reso di fatto impossibile ottenere, salvo casi eccezionali, la tutela d’autore per i prodotti della moda», aggiunge Roncaglia. Proprio il suo studio ha assisto vittoriosamente Levi Strauss & Co. avanti alla Corte d’appello di Roma in un caso di contraffazione del suo iconico marchio «Arcuate», l’inconfondibile cucitura ad «ala di gabbiano» sulla tasca posteriore dei jeans «Levi’s».
Per Niccolò Ferretti, socio responsabile del team IP di Nunziante Magrone, «al giorno d’oggi la tutela dei marchi è sicuramente più complessa, ma non meno efficace rispetto al passato. La pervasività e diffusione della rete e dei social comporta la risoluzione di questioni di competenza e giurisdizione, in quanto il medesimo evento contraffattivo può svilupparsi contemporaneamente in più paesi e coinvolgere più operatori. Il calo del contenzioso giudiziale cominciato in occasione della prima crisi finanziaria del 2008 è ormai stabilizzato. Questo non significa che manchino le vertenze, ma piuttosto che gli imprenditori tentano di ricorrere il meno possibile ai procedimenti giudiziari, optando, ove possibile per la composizione transattiva fuori dalle aule dei tribunale. Il ricorso a queste ultime rimane comunque l’ultima possibilità di ottenere ragione dei propri diritti. Probabilmente il minor numero di dispute giudiziali è da attribuire a una maggior consapevolezza della tutela della proprietà intellettuale da parte degli operatori e dalla conseguente maggior propensione alla definizione amichevole delle liti. La maggiore esposizione mediatica incrementa il pericolo che brand noti o anche meno noti siano più soggetti a fenomeni di contraffazione».
Infine per Monica Riva, senior counsel di Legance Avvocati Associati, «il primo insegnamento è aiutare le case di moda a prepararsi all’attacco con ciò che più conta in un processo, specie civile: la raccolta, ordinata e completa, degli elementi di prova. Un altro grande insegnamento è collaborare con i tecnici, specie informatici e della catena produttiva: spesso dietro le contraffazioni si nascondono casi di pirateria o aggressioni molto più sofisticate, oppure dietro un prodotto contraffatto vi può essere anche un prodotto non a norma o addirittura un prodotto pericoloso. L’avvocato che non si limita all’analisi giuridica e collabora e con gli altri professionisti, conoscendo molto bene il business di riferimento, offre sicuramente una consulenza e un servizio migliore e più completo al suo cliente moda. Ancora oggi i danni in Italia sono liquidati, diciamo, con «parsimonia». Ancora una volta insisto sulla necessità di provare i danni e sottolineo che spesso bloccare la contraffazione o ottenere un provvedimento inibitorio (magari con tanto di sua pubblicazione) può prevenire o limitare il verificarsi di danni ingenti e, in un certo senso, a quel punto, il tema della loro liquidazione in giudizio diventa secondario».
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