Pagina a cura di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti
I bitcoin sono dei prodotti finanziari e pertanto disciplinati dal Tuf: è quanto chiarito dalla seconda sezione penale della Cassazione con sentenza 28607/2020, con la conseguenza che se un privato senza abilitazione vende criptovalute su un sito internet commette il reato di intermediazione finanziaria abusiva. La Suprema corte, precisamente, nell’ambito di un procedimento per abusivismo finanziario, contestato in relazione a operazioni in criptovaluta, ha rigettato il motivo di ricorso con il quale veniva sostenuto che le valute virtuali non sono prodotti di investimento, ma mezzi di pagamento, e così sottratte alla normativa in materia di strumenti finanziari; e ha osservato che laddove la vendita di bitcoin sia reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, trattasi di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti Tuf, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) Tuf. E se non è mancato chi ha nei giorni scorsi ritenuto di definire la sentenza addirittura come storica, certo è che quantomeno le va pacificamente riconosciuto il merito di aver portato un po’ di chiarezza in un campo scivoloso, quello delle criptovalute, in cui l’assenza di regolamentazione che ormai perdura da anni continua a essere una delle principali cause, da un lato, della mancanza di diffusione lecita delle stesse, e, dall’altro, invece, dell’incremento di un substrato patologico.
Il caso. Nel caso di specie, il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del riesame, aveva respinto il ricorso contro il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari, nell’ambito di un procedimento per plurimi reati tra cui il riciclaggio di cui all’art. 648-bis c.p. e l’abusivismo finanziario di cui all’art. art. 166, comma 1, lett. c) dlgs 58/1998 (Tuf), realizzati attraverso operazioni in criptovalute.
Specificamente, secondo la ricostruzione dell’accusa, l’indagato non si era limitato a occuparsi di acquisto e cessione di criptovalute, ma si era inserito attivamente nella apertura di conti correnti sui quali confluivano i proventi di delitti di truffa, che venivano poi utilizzati per le relative transazioni.
Dunque, seppur si anticipa che la Cassazione ha ritenuto di annullare il provvedimento per radicali vizi della motivazione in ordine alla sproporzione tra la somma sequestrata e il reddito dichiarato dall’indagato, la sentenza desta interesse per essersi pronunciata sulla applicabilità, oggetto di querelle tra gli interpreti, alle operazioni in valute virtuali delle fattispecie contestate.
L’inquadramento giuridico delle criptovalute. Già nel 2015, la Banca d’Italia definiva le valute virtuali come «rappresentazioni digitali di valore, utilizzate come mezzo di scambio o detenute a scopo di investimento, che possono essere trasferite, archiviate e negoziate elettronicamente», avvertendo, tuttavia, che l’utilizzo del termine valuta veniva utilizzato semplicemente per identificare il fenomeno comunemente noto sotto tale denominazione, non volendo esprimere alcun giudizio sulla natura di tali strumenti. In realtà, negli anni, i tentativi definitori hanno visto la contrapposizione di differenti teorie: una prima, che vuole trattare i bitcoin alla stregua di monete, seppur virtuali; una seconda, che tende a valorizzare l’utilizzabilità delle criptovalute come mezzo di pagamento; una terza, che analizza il fenomeno dalla prospettiva dell’investitore, tenendo conto dello scopo di investimento che può caratterizzare l’operatività in valute virtuali.
Del resto, nel chiarire quando sia configurabile un «investimento di natura finanziaria» a cui applicare la disciplina del Tuf, la Consob ha previsto ha ricompreso tutti i casi in cui il risparmiatore impieghi il proprio denaro con un’aspettativa di profitto, mentre si è in presenza di un «investimento di consumo» quando la spesa è finalizzata al godimento del bene, ossia, è volta a trasformare le proprie disponibilità in beni reali idonei a soddisfare in via diretta i bisogni non finanziari del risparmiatore. Da qui, il consolidamento della tesi per cui, qualora l’acquisto di bitcoin assuma la funzione di «investimento di natura finanziaria» nei termini sopra esposti, la causa concreta dell’acquisto (e quindi del rapporto contrattuale instaurato tra il venditore e il compratore della criptovaluta) potrebbe comportare l’attrazione delle monete virtuali nella nozione di «prodotto finanziario» ex art. 1, comma 1, lett. u) del Tuf, con tutte le conseguenze che ne derivano in punto di disciplina applicabile.
Criptovalute e abusivismo finanziario. Quanto poi al profilo dell’eventuale abusivismo finanziario, un passo normativo è stato compiuto con l’inserimento nell’art. 17-bis dlgs 141/2010 di due nuovi commi, i quali hanno imposto ai prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valute virtuali l’iscrizione in un’apposita sezione del registro dei cambiavalute. Ai sensi del nuovo disposto, «la comunicazione costituisce condizione essenziale per l’esercizio legale dell’attività da parte dei suddetti prestatori», assolvendo tale obbligo di registrazione alla fondamentale funzione di consentire l’esercizio del controllo da parte delle Autorità pubbliche di vigilanza. Inoltre, il dlgs 90/2017, nel disciplinare i profili amministrativi di esercizio dell’attività degli exchanger, li ha coordinati con gli obblighi previsti dalla disciplina antiriciclaggio, individuando precisamente i soggetti tenuti all’iscrizione nei «prestatori di servizi relativi all’utilizzo delle valute virtuali» come definiti dal dlgs 231/2007.
Ancora, il legislatore ha previsto anche per i professionisti del mercato delle valute virtuali la punizione a titolo di illecito amministrativo dell’esercizio abusivo dell’attività. Unico dubbio che permaneva tra gli studiosi riguardava il sussistere anche di una rilevanza penale.
La decisione della Cassazione. Ciò detto, nel caso di cui alla sentenza in commento, dinanzi al motivo di ricorso con il quale veniva sostenuto che «poiché le valute virtuali non sono prodotti di investimento, ma mezzi di pagamento, le stesse siano sottratte alla normativa in materia di strumenti finanziari», la Corte ha osservato come tale censura non si confrontasse però con la motivazione dell’ordinanza impugnata, ove si sottolineava che la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che «chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%». Per questo la Cassazione ha confermato che trattasi di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti Tuf, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) Tuf. E seppur senza specifiche statuizioni sul punto, la Cassazione non ha manifestato dubbi che i bitcoin possono essere agevolmente ricompresi nell’oggetto materiale pure del reato di riciclaggio. Del resto, in più occasioni la dottrina ha sottolineato sul punto che la fattispecie include i beni immateriali riconducibili a un’essenza economico-finanziaria, definizione compatibile con i tratti essenziali delle criptovalute, le quali sono certamente beni, come descritti dal codice civile, e anche se non lo fossero rientrerebbero certamente nel concetto di altra utilità.
Tutto ciò chiarito, sulla base dei sopra anticipati vizi della motivazione in ordine alla sproporzione tra la somma sequestrata e il reddito dichiarato e alla attività economica svolta dall’indagato, la Cassazione ha annullato l’ordinanza impugnata e rinviato per nuovo giudizio al Tribunale di Milano.
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