La persona che, ferita, sopravviva quodam tempore, e poi muoia a causa delle lesioni sofferte, può patire un danno non patrimoniale.
Questo danno può teoricamente manifestarsi in due modi, ferma restando la sua unitarietà quale concetto giuridico: il primo è il pregiudizio derivante dalla lesione della salute; il secondo è costituito dal turbamento e dallo spavento derivanti dalla consapevolezza della morte imminente.
Ambedue questi pregiudizi hanno natura non patrimoniale, come non patrimoniali sono tutti i pregiudizi che investono la persona in sé e non il suo patrimonio.
Quel che li differenzia non è la natura giuridica, ma la consistenza reale: infatti il primo (lesione della salute):
- ha fondamento medico legale;
- consiste nella forzosa rinuncia alle attività quotidiane durante il periodo della invalidità;
- sussiste anche quando la vittima sia stata incosciente.
Il secondo, invece:
- non ha fondamento medico legale;
- consiste in un moto dell’animo;
- sussiste solo quando la vittima sia stata cosciente e consapevole.
Il danno alla salute che può patire la vittima di lesioni personali, la quale sopravviva quodam tempore e poi deceda a causa della gravità delle lesioni, dal punto di vista medico-legale può consistere solo in una invalidità temporanea, mai in una invalidità permanente.
Il lemma invalidità, infatti, per secolare elaborazione medico-legale, designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente).
L’espressione invalidità temporanea designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa.
L’espressione invalidità permanente designa invece lo stato menomativo che residua dopo la cessazione di una malattia.
L’esistenza di una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinché durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v’è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea.
Il danno biologico causato dall’invalidità temporanea consiste nella forzosa rinuncia, durante il periodo di malattia, alle ordinarie attività non spiacevoli cui la vittima si sarebbe altrimenti dedicata, se fosse rimasta sana.
Per risalente convenzione medico-legale, il danno alla salute da invalidità temporanea si apprezza in giorni, mai in frazioni di giorni: sarebbe, infatti, un esercizio puramente teorico pretendere di dare un peso monetario alle attività di cui la vittima è stata privata, durante un periodo di sopravvivenza protrattosi per poche ore o per pochi minuti.
Da quanto esposto consegue che in tanto la vittima di lesioni potrà acquistare il diritto al risarcimento del danno alla salute, in quanto abbia sofferto un danno alla salute medico legalmente apprezzabile, dal momento che per espressa definizione normativa, oltre che per risalente insegnamento della dottrina, il danno biologico è solo quello suscettibile di accertamento medico legale (così l’art. 138 cod. ass.).
Ciò sul presupposto che il danno biologico non consiste nella mera lesione dell’integrità psicofisica, ma presuppone che tale lesione abbia compromesso l’esplicazione piena e ottimale delle attività realizzatrici dell’individuo nel suo ambiente di vita, sicché una concreta perdita o riduzione di tali potenzialità può concretizzarsi soltanto nell’eventualità della prosecuzione della vita, in condizioni menomate, per un apprezzabile periodo di tempo successivamente alle lesioni.
Consegue che, in difetto di una apprezzabile protrazione della vita successivamente alle lesioni, pur risultando lesa l’integrità fisica del soggetto offeso, non è configurabile un danno biologico risarcibile, in assenza di una perdita delle potenziali utilità connesse al bene salute suscettiva di essere valutata in termini economici.
La conclusione è che nel caso di morte causata da lesioni personali, e sopravvenuta a distanza di tempo da queste, un danno biologico permanente è inconcepibile.
Quanto al danno biologico temporaneo, per potersene predicare l’esistenza sarà necessario che la lesione della salute si sia protratta per un tempo apprezzabile, perché solo un tempo apprezzabile consente quell’accertabilità medico legale che costituisce il fondamento del danno biologico temporaneo.
Normalmente tale lasso apprezzabile di tempo dovrà essere superiore alle 24 ore, giacché come accennato è il giorno l’unità di misura medico legale della invalidità temporanea; ma in astratto non potrebbe escludersi a priori l’apprezzabilità del danno in esame anche per periodi inferiori.
Naturalmente, una volta accertata la sussistenza di un danno biologico temporaneo provocato da una lesione mortale, esso sarà risarcibile a prescindere dalla consapevolezza che la vittima ne abbia avuto, dal momento che quel pregiudizio consiste nella oggettiva perdita delle attività quotidiane.
La vittima di lesioni che, a causa di esse, deceda dopo una sopravvivenza quodam tempore, può poi patire, come accennato, un pregiudizio non patrimoniale di tipo diverso: la sofferenza provocata dalla consapevolezza di dovere morire.
Questa sofferenza potrà essere multiforme, e potrà consistere nel provare – ad esempio – la paura della morte; l’agonia provocata dalle lesioni; il dispiacere di lasciar sole le persone care; la disperazione per dover abbandonare le gioie della vita; il tormento di non sapere chi si prenderà cura dei propri familiari, e così via.
L’esistenza stessa, e non la risarcibilità, del pregiudizio in esame, al contrario del danno alla salute, presuppone che la vittima sia cosciente.
Se la vittima non sia consapevole della fine imminente, infatti, non è nemmeno concepibile che possa prefigurarsela, e addolorarsi per essa.
In questa seconda ipotesi, poiché il danno risarcibile è rappresentato non dalla perdita delle attività cui la vittima si sarebbe dedicata, se fosse rimasta sana, ma da una sensazione dolorosa, la durata della sopravvivenza non è un elemento costitutivo del danno, né incide necessariamente sulla sua gravità.
Anche una sopravvivenza di pochi minuti, infatti, può consentire alla vittima di percepire la propria fine imminente, mentre – al contrario una lunga sopravvivenza in totale stato di incoscienza non consentirebbe di affermare che la vittima abbia avuto consapevolezza della propria morte.
In conclusione:
- le espressioni danno terminale, danno tanatologico, danno catastrofale non corrispondono ad alcuna categoria giuridica, ma possono avere al massimo un valore descrittivo, e neanche preciso;
- il danno da invalidità temporanea patito da chi sopravviva quodam tempore a una lesione personale mortale è un danno biologico, da accertare con gli ordinari criteri della medicina legale; di norma, esso sarà dovuto se la sopravvivenza supera le 24 ore, ed andrà comunque liquidato avendo riguardo alle specificità del caso concreto;
- la sofferenza patita da chi, cosciente e consapevole, percepisca la morte imminente, è un danno non patrimoniale, da accertare con gli ordinari mezzi di prova, e da liquidare in via equitativa avendo riguardo alle specificità del caso concreto.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza del 5 luglio 2019 n. 18056