di Paola Valentini
Nonostante le rassicurazioni del premier Matteo Renzi, che ha respinto al mittente anche l’accusa dei tagli alla sanità praticati dall’esecutivo, è certo che è al tramonto il modello della sanità all you can eat (così vengono definiti i ristoranti dove a prezzo fisso si può mangiare a volontà) che per anni ha contraddistinto il servizio pubblico italiano.
Un modello ben delineato dal film di fine anni 60 Il medico della mutua dove Alberto Sordi impersonava il dottor Guido Tersilli, un giovane e ambizioso camice bianco senza scrupoli che aveva visto nel sistema sanitario il modo più veloce per arricchirsi. Per avere più mutuati possibili Tersilli aveva architettato stratagemmi di ogni tipo ed era arrivato a metterne insieme più di 3 mila (salvo poi collassare per il ritmo frenetico delle visite). Prescrivere analisi ed esami inutili a costo zero a pazienti magari sanisssimi era la via più semplice per guadagnare facendo leva sia sulla mania di cronici malati immaginari sia sulla complicità di altri. Il mondo dipinto dalla pellicola del 1968 non era poi così lontano dalla realtà: un sistema figlio di un Italia che ancora nei fasti del boom economico non si poneva il problema della sostenibilità della spesa pubblica per il welfare dei cittadini. Anzi. In tema di pensioni, proprio nel 1969 fu varata la riforma Brodolini, in base alla quale si abbandonava definitivamente ogni forma di capitalizzazione, si adottava la formula retributiva per il calcolo della pensione, svincolando il calcolo dai contributi effettivamente versati e legando la prestazione alla retribuzione percepita negli ultimi anni di lavoro.
Un intervento che negli anni ha portato enormi squilibri nei conti pubblici e soltanto di recente, nell’emergenza del debito pubblico che nel frattempo è esploso, è stato oggetto di numerose correzioni. Da ultima la legge Fornero del 2012 che ha definitivamente cancellato il sistema di calcolo retributivo delle pensioni (seppur i forma proquota per i lavoratori più anziani).
E dopo gli interventi sulla previdenza, ora nel mirino è entrata la sanità. Anche in questo settore sprechi e corruzione hanno rischiato di far sbandare i conti dello Stato. Ma a parte gli accordi Stato-Regioni per contenere i costi, perché queste ultime detengono la competenza sulla sanità, finora i governi che si sono succeduti alla guida dell’Italia non hanno mai preso provvedimenti che incidono così direttamente e immediatamente sui cittadini italiani, come quello varato questa estate.
Con una mossa a sorpresa contenuta nel decreto legge 78/2015 che avrebbe dovuto contenere disposizioni urgenti in materia di enti territoriali, ma che di fatto è diventata una piccola grande manovra, il governo ha rivisto l’elenco di visite ed esami coperti dal Ssn. Senza dubbio nel varo del provvedimento si ritrovano alcune linee guida del lavoro svolto da Marco Carrai, presidente del Cambridge Management Consulting Labs e vicino a Matteo Renzi. Un’analisi che ha portato un aumento dell’efficienza nella gestione delle procedure dell’ospedale milanese San Raffaele che, se fosse preso come modello nella sola Lombardia, la sanità della regione potrebbe ottenere risparmi per 1,8 miliardi annui. Dato che la Lombardia pesa circa il 10% nel settore della sanità, in Italia si potrebbero ridurre le spese di 18 miliardi. Nella norma del decreto 78 è prevista una riduzione di 2,3 miliardi annui a decorrere dal 2015 dei fondi trasferiti alle Regioni per garantire il Servizio Sanitario Nazionale (si aggiungono i tagli di 3,5 miliardi varati dai governi Monti e Letta). E non è chiaro quanti di questi rientrano nella riduzione complessiva di spesa per la sanità di 10 miliardi previsti nell’ambito della spending review. Per contenere i costi della sanità il decreto dispone interventi sulla spesa per l’acquisto di beni e servizi sanitari, dispositivi medici e farmaci e si punta a una rinegoziazione dei contratti con i fornitori. Ma soprattutto saranno multati i medici che prescriveranno esami superflui e inutili. Dai dati dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali emerge che il 50% dei medici ospedalieri pratica la medicina difensiva, che si esplica attraverso prescrizioni di esami e visite a scopo precauzionale, per il timore di incorrere in cause legali. Un fenomeno che secondo il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, costa alla sanità circa 13 miliardi l’anno.
Le nuove regole, quindi, prevedono misure di riduzione dello stipendio del medico, in caso di «comportamento prescrittivo» non conforme alle indicazioni del decreto del ministro della Salute, cui è stato delegato il compito di individuare con decreto le condizioni di erogabilità e appropriatezza delle singole prestazioni. Proprio nei giorni scorsi ha visto la luce questo decreto che riceve 208 prestazioni su 1.700. In pratica il governo intende risparmiare 180 milioni all’anno considerando che sono 200 milioni le prestazioni che ogni anno vengono erogate dal Ssn. Il 12% delle prestazioni oggi gratuite saranno mutuabili secondo le condizioni del paziente. «Non è vero che le 208 prestazioni non saranno più prescritte. La differenza è che c’è un criterio di appropriatezza e le sanzioni ci saranno solo nel caso di abusi e quando ci sono sprechi enormi. Una prestazione inappropriata non è inutile né superflua, semplicemente non deve essere prescritta a quel paziente», ha ribadito il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin.
Lorenzin afferma che il provvedimento serve ad alleggerire le liste d’attesa da chi ad esempio fa una risonanza magnetica ma in realtà la sua diagnosi potrebbe essere fatta anche senza questo strumento. Secondo Lorenzin, proprio questo è lo spreco in cima alla classifica. «Per la risonanza a spalla, braccia, bacino e gambe, oggi non ci sono limiti all’erogabilità, ma ci devono essere», ha affermato Lorenzin. La legge prevede che i medici che prescriveranno prestazioni inappropriate saranno multati. Per i cittadini, quindi, la stretta sugli esami potrebbe essere un vantaggio se effettivamente sfoltirà le liste d’attesa, ma dall’altra rischia di trasformarsi in un boomerang perché l’erogazione delle prescrizioni dipenderà dalla scienza e dalla coscienza del proprio medico. Con la conseguenza che magari per lo stesso esame alcuni si rifiuteranno di prescriverlo e altri medici invece saranno propensi a farlo. Un capitolo molto spinoso riguarda ad esempio le cure dentali. Numerose, infatti, sono le prestazioni odontoiatriche sotto la lente del decreto. Ma sono tutelati i minori di 14 anni e le persone vulnerabili a livello sociale o sanitario. Oggi, nei pochi ospedali che hanno un reparto di odontoiatria, è possibile farsi ricostruire un dente o applicare una corona o riparare una protesi, anche se non c’è alcuna emergenza. Con le nuove disposizioni l’assistenza gratuita resterà solo per le emergenze. Ma moltissime prestazioni sono state riviste. Ad esempio l’estrazione di un dente che si muove con anestesia resta mutuabile da 0 a 14 anni o nei casi di difficoltà di salute ed economiche. E ancora. I test per le allergie oggi sono mutuabili e senza limitazioni. Ma d’ora in poi questi test non potranno più essere chiesti dal medico di base ma soltanto da uno specialista (allergologo o dermatologo).
La stretta riguarda anche i test genetici. Un gran numero di prestazioni colpite dal decreto mettono nel mirino proprio questi esami con un elenco a parte in cui sono evidenziate le diagnosi di specifiche malattie e condizioni (un elenco corposo) per cui sono erogati i test a carico del Ssn.
L’esame dei villi coriali sulle donne in gravidanza per verificare malformazioni al feto sarà mutuabile solo se prescritto dallo specialista. Paletti anche sull’esame del colesterolo nel sangue. Oggi non ci sono limiti alla prescrizione, ma con il nuovo provvedimento le analisi del livello di grassi nel sangue va eseguito come screening agli over 40 e per chi ha fattori di rischio cardiovascolari o colesterolo alto familiare. In assenza di valori elevati, modifiche allo stile di vita o interventi terapeutici, l’esame non può essere ripetuto con una frequenza inferiore ai 5 anni. Se qualcuno vorrà tenere sotto controllo il livello dei grassi nel sangue, potrà farlo ma a sue spese. Rispetto invece a esami di diagnostica come le risonanze magnetiche, è previsto che siano erogabili in particolari condizioni legate ad esempio a patologie oncologiche o traumatiche. Per quanto riguarda la risonanza magnetica della colonna (cervicale, toracica, lombosacrale) le condizioni di erogabilità prevedono che vi sia una «condizione di dolore rachideo in assenza di coesistenti sindromi gravi di tipo neurologico o sistemico, resistente alla terapia, della durata di almeno 4 settimane, e traumi recenti e fratture da compressione. In caso di negatività l’esame non deve essere ripetuto prima di 12 mesi».
L’elenco delle 208 prestazioni che per essere erogate a carico del Ssn dovranno soddisfare le condizioni di erogabilità o di appropriatezza prescrittiva è lungo e articolato (da sottolineare che il decreto per essere definitivo dovrà essere approvato dalla Conferenza Stato-Regioni). Come già anticipato nella prima versione del provvedimento, che peraltro riguardava meno prestazioni (180) sono toccati vari ambiti tra cui: odontoiatria, radiologia diagnostica, esami di laboratorio, dermatologia allergologica, medicina nucleare. Per una risonanza muscoloscheletrica (spalla, braccio, mano, gomito, ginocchio), sarà a carico del Ssn in caso di patologia traumatica acuta, in caso di fase post chirurgica e in caso di sospetta infiammazione. E non è ripetibile prima di almeno tre mesi e in funzione del quadro clinico-laboratoristico. Nei quadri di degenerazione artrosica è indicato l’esame radiologico e inappropriata la risonanza magnetica.
«Al governo va sicuramente riconosciuto lo sforzo di voler risolvere alcuni problemi strutturali che altro non sono se non l’eredità di anni di sprechi. Ciò che, tuttavia, va tenuto in maggiore considerazione», commenta il presidente della Società di Mutuo Soccorso Aglea Salus, Filippo Buono, «non è la cifra da impiegare, ma in che modo viene impiegata. Il nostro Ssn, considerato uno dei migliori in Europa, registra da anni malfunzionamenti come liste d’attesa infinite e una non sempre coerente amministrazione da parte delle Regioni che, da Nord a Sud, ha portato i cittadini a rivolgersi a soluzioni private. O almeno chi può permetterselo. Poiché già adesso sono milioni gli italiani che rinunciano alle cure mediche o vi provvedono di tasca propria». I numeri di Altroconsumo parlano di una spesa di 2 mila euro all’anno a famiglia, il 14% del reddito medio di un nucleo standard, con un 46% degli utenti che decide di abbandonare del tutto studi medici e ambulatori. E anche l’offerta delle polizze deve ora adeguarsi ai cambiamenti in atto nella sanità pubblica. Come emerge dalla tabella a pag. 15 in cui sono messe a confronto le polizze sanitarie offerte dalle principali compagnie di assicurazione attive nel ramo malattia. Dall’analisi di Rbm Salute e del Censis Costruire la nuova sanità integrativa emerge che con riferimento ai bisogni sanitari degli assistiti, le prestazioni più richieste riguardano l’area della specialistica e della diagnostica, delle cure dentarie e dei farmaci. Al riguardo, tuttavia, si legge nell’analisi «l’attuale risposta delle forme sanitarie integrative non risulta adeguata sia in termini di ampiezza delle coperture (ammissibilità delle prestazioni, ndr), sia con riferimento all’intensità delle assistenze erogate (ammontare dei rimborsi). Infatti (come illustrato nel grafico a pagina 14) oltre il 50% delle prestazioni ritenute necessarie dagli assistiti nelle aree della specialistica e della diagnostica e delle cure dentarie è esclusa dalle attuali coperture garantite dalle forme sanitarie integrative. I farmaci, che sono in termini di bisogno di copertura la terza area di assistenza più richiesta, sono nella quasi totalità dei casi esclusi da qualsiasi forma di rimborso. Tale ultimo dato, peraltro, appare ancor più significativo se si pensa che i farmaci rappresentano una delle principali voci di spesa degli italiani in ambito sanitario», conclude lo studio. (riproduzione riservata)