di Alessia Maggiani*
I mutamenti demografici e socio-lavorativi (aspettativa di vita ed età pensionabile che si allungano, crescita dell’occupazione femminile), e la spesa pubblica per il welfare che si restringe al fine di riequilibrare i bilanci statali, hanno dato impulso allo sviluppo del cosiddetto welfare aziendale, cioè le prestazioni che l’azienda eroga ai dipendenti per migliorare la loro vita privata e lavorativa (si va dal sostegno al reddito familiare a incentivi allo studio; dalle iniziative che permettono di conciliare meglio famiglia, lavoro e tempo libero alle agevolazioni commerciali), fino a configurarsi – in diversi casi – come un vero patto tra datore di lavoro e dipendenti, all’insegna del reciproco vantaggio. L’Ocse stima che le prestazioni non obbligatorie fornite dalle aziende arrivano al 14% della spesa sociale totale in Gran Bretagna, e intorno al 7% in Francia, Germania e Svezia. In Italia il settore ha acquisito una certa consistenza solo da pochi anni, sebbene vi sia piena consapevolezza che un’adeguata erogazione di servizi welfare abbia ricadute positive non solo sui dipendenti, ma sulle stesse aziende che in tal modo possono attrarre talenti, fidelizzarli e motivarli (non è un caso che le aziende molto attive su questo fronte registrino tassi di assenteismo e turn-over inferiori alla media). Senza contare che piani di welfare aziendale possono essere approvati previo accordo con i sindacati (per esempio con accordi integrativi) e concorrere a migliorare il clima aziendale. E poi c’è il tema economico, non proprio irrilevante. Se un aumento salariale di 100 euro mensili costa all’azienda il doppio, o quasi, i servizi di welfare fanno sì che spesa netta e spesa lorda il più delle volte coincidano. Per esempio, si pensi ai contributi assistenziali e previdenziali versati dal datore di lavoro o dal dipendente a enti o casse aventi solo fine assistenziale in conformità a disposizioni di contratto, accordo o regolamento aziendale che, nel limite di 3.615,20 euro annui, non sono sottoposti a tassazione. E ancora alle spese sostenute volontariamente dal datore di lavoro per l’educazione, l’istruzione, la ricreazione dei familiari dei dipendenti che, a prescindere dal loro valore, non concorrono a formare il reddito del dipendente. Senza poi dimenticare gli ulteriori benefici previsti dalle leggi regionali, che tendono a facilitare accordi di questo genere. Anche in Italia, seppur più timidamente che altrove, le iniziative di welfare in azienda si sono moltiplicate negli ultimi anni. Va detto che sono state sviluppate soprattutto da grandi realtà (Luxottica nel 2009 ha introdotto il Carrello della Spesa gratuito, cioè prodotti alimentari distribuiti mensilmente agli 8mila dipendenti; Ducati ha introdotto borse di studio, permessi per conciliare lavoro ed esigenze familiari, servizi di assistenza all’infanzia, per non dire degli asili adottati da Nestlè, Perugina, Ferrari, Vodafone,Intesa Sanpaolo , Unicredit , Bnl). La vera sfida, dunque, è che anche le pmi, possano diventare attori primari in questi servizi. Va però detto che, da promotori del Premio Assiteca dedicato quest’anno alle aziende campioni del welfare, abbiamo visto moltiplicarsi i progetti delle pmi (ma anche di aziende pubbliche), che hanno scoperto l’importanza di consorziarsi e fare rete, collaborando con le locali associazioni imprenditoriali, per realizzare programmi che le singole aziende non potrebbero attuare da sole, e che vanno da convenzioni commerciali a servizi sul territorio, da sportelli di ascolto a piani di flessibilità per i dipendenti genitori, a tessere per l’ingresso scontato nei musei. Presto si vedrà un aumento esponenziale di tali iniziative, e imprenditori e dipendenti apprezzeranno il welfare aziendale come mezzo per migliorare le condizioni di lavoro e contenere i costi sociali. (riproduzione riservata)
*direttore area Employee
e Benefit, Assiteca