Pagina a cura di Vincenzo José Cavallaro  

 

L’Italia sta per dotarsi di una misura fortemente raccomandata dall’Ocse, la voluntary disclosure (il ddl ha ricevuto giovedì il via libera della Camera e passa ora all’esame del Senato), che segna una svolta epocale nella dialettica tra contribuenti e Agenzia delle entrate. Chi ha commesso violazioni fiscali, a legislazione vigente, non può usufruire di procedure di regolarizzazione che valorizzino l’atteggiamento collaborativo del contribuente in termini di riduzione delle sanzioni amministrative e di esclusione della punibilità penale.

Il ravvedimento operoso tipizzato dal dlgs 472 del ’97 permette di regolarizzare errori oppure omissioni commessi in un arco temporale molto limitato (oggi con il ravvedimento si può sanare solo il 2013). Il pregio della voluntary disclosure consiste proprio nel valorizzare in termini di riduzione delle sanzioni amministrative ed esclusione della punibilità penale per tutti i reati dichiarativi, compresi quelli fraudolenti (restano punibili solo l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e la distruzione o occultamento di scritture contabili) l’atteggiamento collaborativo del contribuente, che rende ammissione piena e veritiera delle violazioni commesse. E la strada scelta non è quella della presentazione di una dichiarazione integrativa, bensì quella più gravosa di una procedura contraddittoria. Nella voluntary estera, il cui presupposto di accesso è l’aver commesso violazioni alla normativa sul monitoraggio fiscale, l’onere documentale richiesto ai contribuenti nelle fasi contraddittorie della procedura sarà notevole: si va dalla produzione degli estratti conto relativi ai rapporti i cui saldi non sono stati indicati nel quadro RW, alla ricostruzione di prelevamenti e versamenti, alla dimostrazione dell’origine della provvista estera non dichiarata. Sarà in sostanza necessario indagare il presupposto d’imposta che è alla base dello stock di attivi non dichiarati. E se ci sono casi in cui alla violazione degli obblighi di monitoraggio non corrisponde un’evasione fiscale «storica» (si pensi al caso del dipendente di una multinazionale che, nel corso della propria carriera, da residente estero ha accumulato un patrimonio tassato nel rispettivo paese di residenza, patrimonio poi non dichiarato nel quadro RW per le annualità successive al trasferimento di residenza in Italia), ci sono molti altri casi in cui i patrimoni esteri non dichiarati derivano da fatti di evasione. Fatti di evasione che vanno ricostruiti, e per i quali saranno dovute le imposte per intero, a meno che tali fatti non si collochino in una annualità non accertabile.

Il costo dell’adesione dipende in sostanza dal periodo in cui l’evasione storica a cui è collegata la provvista estera non dichiarata è stata commessa. Se i fatti che sono stati alla base della precostituitone della provvista estera non dichiarata (es. attività di sottofatturazione o di omessa fatturazione da parte di imprese, società o professionisti), sono stati posti in essere in periodi per i quali risulta decaduta l’azione accertatrice dell’amministrazione finanziaria, il costo della disclosure sarà limitato alle sanzioni sul monitoraggio fiscale (1% dello stock alla fine di ogni esercizio degli attivi esteri, se depositati in paesi black list, 0,5% annuo, per attivi depositati in paesi white list), alle imposte relative ai redditi prodottisi sulla provvista estera non dichiarata (dividendi, interessi e capital gains) alle relative sanzioni definibili in modo ridotto e agli interessi. Ai sensi dell’articolo 43 del dpr n. 600/1973 gli avvisi di accertamento, ai fini reddituali, devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione. Nei casi di omessa presentazione della dichiarazione, l’avviso di accertamento può essere notificato fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata. Per le sanzioni sul monitoraggio fiscale, si applica questo secondo termine anche in caso di presentazione della dichiarazione. Le stesse regole sono previste ai fini Iva dall’art. 57 del dpr n. 633/72. In sostanza, utilizzando le regole ordinarie, le annualità accertabili sono fino al 2009 in caso di dichiarazione infedele, fino al 2008 in caso di dichiarazione omessa e per le sanzioni relative al monitoraggio fiscale.

Tali termini sono raddoppiati, a legislazione vigente, in due casi: a) per le violazioni che comportano l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati tributari previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, b) nel caso di accertamento basato sulla «presunzione» di cui all’art. 12 del dl 78/2009, secondo cui le attività finanziarie e patrimoniali estere detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato in violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale, si presumono costituite, salva la prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. La ratio del raddoppio dei termini in entrambi i casi risiede nell’esigenza di dare all’Amministrazione maggior tempo per accertare fatti particolarmente complessi.

Visto che la voluntary disclosure si basa sulla collaborazione piena e veritiera, il raddoppio dei termini, in caso di accesso alla procedura, appare contrario a esigenze di proporzionalità oltre che alla stessa ratio delle norme che prevedono il raddoppio dei termini. Si tratta di una tematica nei confronti della quale il legislatore non è stato insensibile. Il comma 4 dell’art. 1) del ddl rende non operativo il raddoppio dei termini di decadenza dell’azione accertatrice per gli attivi detenuti in paesi che, seppur menzionati in una delle black list italiane, sono divenuti collaborativi. È necessario, in merito, che il Paese di riferimento abbia firmato un accordo sullo scambio di informazioni a domanda conforme agli standard Ocse, o firmi un tale accordo entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge. Non scatta il raddoppio dei termini, dunque, se gli attivi sono depositati in un Paese che, pur essendo incluso in una black list italiana, è divenuto collaborativo perché ha firmato un protocollo modificativo della relativa convenzione contro le doppie imposizioni che rende effettivo lo scambio di informazioni a domanda, anche in deroga al segreto bancario e professionale.

Questo è il caso del Lussemburgo, San Marino, Singapore e Hong Kong, che hanno firmato tali protocolli. Per attivi depositati in tali paesi, il raddoppio dei termini scatterebbe solo in caso di violazioni che comportano l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati tributari previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74.

La tematica del raddoppio dei termini per fatti rilevanti dal punto di vista del diritto penale tributario deve fare i conti però con una causa di esclusione della punibilità la cui portata è veramente ampia. La tesi dell’Agenzia delle entrate è che, nonostante l’ampiezza della causa di esclusione della punibilità legata alla procedura di disclosure, l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice penale permane, e con esso il raddoppio dei termini. Tale impostazione appare in verità contraria alla ratio del raddoppio dei termini in parola, che è di dare maggior tempo all’Amministrazione finanziaria di accertare fatti particolarmente complessi utilizzando l’esito delle indagini giudiziarie che scaturiscono dalla notitia crimini. Indagini che, a seguito dell’esimente penale, neanche partirebbero.

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