Il trattamento di fine rapporto in busta paga? Sì, ma senza tranelli perché dovrà essere un opportunità per tutti, lavoratori e datori di lavoro, e non solo per le casse dello Stato. La proposta di trasferire nelle buste paga dei lavoratori dipendenti il trattamento di fine rapporto a partire dal gennaio 2015, lanciata nei giorni scorsi da Palazzo Chigi e ora in discussione tra le forze politiche e le Parti sociali ha diviso l’opinione pubblica tra favorevoli e contrari, ognuno con le proprie ragioni e le proprie recriminazioni. In effetti, l’iniziativa annunciata dal presidente del consiglio, Matteo Renzi, presenta molte luci e ombre, che non si possono tacere. L’intento dichiarato di stimolare la ripresa dei consumi è sicuramente consivisibile, ma il timing e lo strumento individuato da Palazzo Chigi suscita non poche perplessità all’interno degli studi professionali, duramente colpiti da una congiuntura asfissiante e ora chiamati all’ennesimo esborso finanziario che rischia di indebolire ulteriormente un settore, quello del lavoro autonomo, completamente trascurato dalle politiche del governo. Se l’obiettivo del presidente Renzi è davvero quello di riaccendere i consumi, il tfr in busta paga rischia di trasformarsi in una foglia di fico, perché l’unico modo per mettere soldi nelle tasche degli italiani è quello di abbattere le tasse e il carico contributivo che grava su lavoratori e datori di lavoro. Non c’è dubbio che il Paese abbia bisogno di una scossa per far ripartire i consumi, tuttavia il tfr in busta paga così come prospettato dal governo andrebbe a esclusivo vantaggio delle casse dello stato, quando invece dev’essere un’opportunità per tutti, datori di lavoro e lavoratori.
La posizione dei liberi professionisti-datori di lavoro è chiara e senza equivoci, in quanto la proposta in discussione tra governo e parti sociali, appare poco chiara e pone dei dubbi su come verrà poi approvata in Parlamento. Entrando nel merito e partendo dalla situazione attuale sull’istituto del tfr, che ricordiamo non esiste quasi in alcun Paese industrializzato (Germania, Francia, Gran Bretagna Spagna e tantomeno negli Stati Uniti) oggi tale trattamento, presenta un assetto normativo ben definito sia per quanto attiene la maturazione dello stesso, l’accantonamento annuale che i datori devono garantire a favore dei lavoratori, e sia l’imposizione contributiva e fiscale che, rispetto alla normale retribuzione, godono di particolari benefici.
Su quest’ultimo aspetto, il tfr oggi non è assoggettato a contribuzione ma l’unico contributo dovuto dai datori del lavoro è rappresentato da uno 0,50% della retribuzione lorda mensile versato per finanziare il cosiddetto fondo di garanzia gestito dall’Inps ed il quale viene utilizzato in caso di insolvenza al pagamento del tfr da parte dei datori di lavoro. Per quanto attiene, poi, l’imposizione fiscale, il trattamento di fine rapporto subisce la trattenuta con tassazione separata prevista con un calcolo ad hoc la quale, nella stragrande maggior parte dei casi, risulta essere più favorevole rispetto alla tassazione ordinaria.
Ed allora, non si può e non si deve, per una mera questione di equità, dichiarare semplicemente e genericamente di inserire il tfr in busta paga. Infatti, trasferire il tfr in busta paga come se fosse una normale retribuzione, dapprima differita e che poi diventa periodica (mensile o annuale), diventerebbe così e di fatto solo una penalizzazione per i datori di lavoro e per gli stessi lavoratori in quanto gli unici soggetti ad avvantaggiarsene sarebbero le casse dell’erario e dell’Inps. Lo Stato incasserebbe sia la contribuzione previdenziale, oggi quasi del tutto esente, e sia la tassazione ordinaria che risulta essere più onerosa per i dipendenti.
La posizione di Confprofessioni si fonda quindi su parametri di equità e di chiarezza affinché la riforma del tfr rappresenti un’opportunità per tutti. Nel dettaglio, seppur in estrema sintesi, le condizioni poste dalla confederazione dei liberi professionisti si possono così elencare:
- l’intervento di modifica del tfr, dovrà riguardare solo le somme maturate dal momento dell’emanazione della norma, senza in alcun modo prevedere versamenti su somme già accantonate. Infatti, quest’ultime resterebbero in azienda o ai fondi di previdenza complementare (fondo tesoreria Inps, contrattuali, privati ecc.);
- il trasferimento in busta dovrà avere cadenza mensile (come oggi avviene già per i fondi complementari) senza accumulo come se fosse un’ulteriore mensilità aggiuntiva;
- esonero dal contributo mensile complessivo dovuto all’Inps dello 0,70% oggi dovuto per il finanziamento del fondo pensione e di garanzia in quanto quest’ultimo rimarrebbe «congelato» per i tfr finora maturati e che non andranno a incrementarsi nel tempo;
- naturalmente nessuna rivalutazione sul maturando perché corrisposto mensilmente in busta paga, tantomeno quella oggi garantita nella misura minima dell’1,50% annua (più alta di qualsiasi forma di interessi su conto correnti bancari), con la solo esclusione di quanto accantonato fino alla gestione del trattamento;
- assoggettamento a tassazione separata (o se preferite, sostitutiva) determinata con la stessa incidenza dell’attuale imposizione senza che ciò determini una maggiore tassazione a sfavore dei lavoratori e un minor gettito nelle casse dell’erario;
- il tfr finora maturato e accantonato presso il datore di lavoro o presso i fondi complementari, dovranno restare nella medesima situazione attuale ed evidentemente liquidati secondo le disposizioni vigenti.
Con queste semplici condizioni trarrebbero vantaggio i lavoratori, che avrebbero in busta paga un maggiore importo e calcolato alle stesse condizioni attuali; i datori di lavoro, che risparmierebbero la contribuzione dovuta al fondo di garanzia del tfr e la rivalutazione annuale dell’accantonato oggi addirittura superiore a quanto corrisposto per interessi dalle banche; infine lo Stato, che avrebbe una gestione più semplice dei fondi e avrà messo in atto un’altra misura nel tentativo di far incrementare i consumi e ridurre il fenomeno della deflazione.
Non chiusura totale, quindi, all’innovazione dell’istituto del tfr proposto dal governo, ma solo con principi di equità e di opportunità per tutti; peraltro, per le aziende con un numero di lavoratori superiori a 49 addetti, il trattamento viene già da oggi versato ai fondi complementari scelti dai lavoratori e quindi per costoro si avrebbe di fatto ed effettivamente una seppur minima riduzione del costo del lavoro. Questa nuova formula, se applicata con le condizioni espresse dalla Confederazione, davvero rappresenterebbe un passo concreto per tutti di riduzione dei costi senza penalizzare i lavoratori nei propri diritti già riconosciuti.