Di Roberta Castellarin e Paola Valentini
Un’altra volta il risparmio degli italiani è stato messo nel mirino. E qualunque sia la scelta che farà il lavoratore sulle sorti del suo Tfr non potrà scampare da un inasprimento fiscale. Sono infatti tre le misure introdotte dalla bozza di legge di Stabilità 2015 che colpiscono direttamente il mondo della previdenza.
La manovra, infatti, prevede, per chi vorrà il Tfr in busta paga, che la tassazione passi da quella separata (e più conveniente) applicata a chi prende la liquidazione quando si ritira dal lavoro, a quella ordinaria che segue le aliquote Irpef standard in base al livello di retribuzione (quindi dal 23% fino al 43%) più le addizionali regionali e comunali. L’aliquota media attualmente applicata al Tfr ricevuto dal lavoratore alla fine della sua carriera è infatti compresa tra il 23 e il 26%. L’operazione Tfr in busta paga è sperimentale perché si applicherà per ora agli stipendi compresi tra il marzo del 2015 e il giugno del 2018.
Lo schema della legge di stabilità punta anche all’innalzamento dell’imposta sulla rivalutazione delle liquidazioni lasciate in azienda dai dipendenti con l’aliquota che passa dall’attuale 11 al 17%. Il Tfr in azienda si rivaluta infatti ogni anno dell’1,5% fisso più il 75% dell’indice di inflazione Istat.
Inoltre la bozza del decreto Stabilità prevede un ritocco all’insù dall’attuale 11,5 al 20% dell’aliquota del prelievo fiscale sui rendimenti ottenuti dai fondi pensione e così anche i futuri assegni previdenziali saranno penalizzati.
Sulla base dei dati raccolti da MF-Milano Finanza presso i fondi pensione negoziali, il loro rendimento medio dei nove mesi del 2014 è stato del 5,5%, cinque volte in più rispetto allo 0,99% messo a segno nello stesso periodo dalla rivalutazione netta del Tfr. Risultati buoni che però, se la misura della legge di Stabilità sarà confermata, dovranno fare i conti con una tassazione più salata. Una sfida in più per i gestori dei fondi pensione che hanno l’obiettivo di girare ai sottoscrittori assegni che permettano di avere un’adeguata integrazione alla pensione pubblica che in prospettiva è destinata a essere sempre meno generosa. A parità di rendimento atteso, il Fisco preleverà una parte maggiore di guadagni e questo significa che l’iscritto dovrà versare un ammontare maggiore di contributi per avere il medesimo importo. Progetica, società di consulenza in pianificazione finanziaria indipendente, ha stimato di quanto si ridurrà la rendita integrativa per effetto di questo inasprimento della tassazione. E quali sono i versamenti necessari con la precedente e la nuova tassazione. Tutte le stime sono in termini reali, a parità di acquisto.
Sottolinea Andrea Carbone di Progetica: «Questo nuovo possibile aumento ha un impatto economico su tutti coloro che stanno effettuando un’integrazione pensionistica: gli aumenti, a parità di obiettivo, vanno dal 3 al 13% in funzione dei profili. Alcune migliaia di euro di versamenti in più per chi volesse mantenere invariato il proprio obiettivo di integrazione. Il costo è naturalmente più alto per chi investe in linea bilanciata, in quanto maggiore è l’incidenza sui rendimenti»
Carbone ricorda che «se la misura verrà confermata, sarà interessante verificare gli effetti di questa normativa su adesioni e versamenti. Ricordiamo che i trattamenti fiscali a favore della previdenza complementare erano finora tre: la deduzione dei versamenti (fino a 5.164 euro), la minor tassazione delle plusvalenze (era all’11%), la minor tassazione della rendita finale (dal 15 al 9%). La nuova aliquota del 20% rimarrebbe comunque di favore rispetto ad altri investimenti tassati al 26%, ma superiore ad esempio a quella dei titoli di Stato (12,5%). Un aumento di 9 punti percentuali evidenzia la difficoltà di conciliare la gestione dei conti pubblici (oggi) con l’incentivazione ad accantonare risorse per quando saremo in pensione (domani)».
Un tema importante, visto che con il metodo contributivo ci saranno pensioni più magre in futuro. La riforma Monti-Fornero ha infatti apportato tagli rilevanti alla spesa previdenziale, i cui effetti si vedranno nei prossimi anni in termini di importo degli assegni erogati. Negli assegni liquidati in questi primi anni post riforma, gli effetti sull’importo saranno limitati perché il sistema contributivo è pro-quota, quindi la pensione viene calcolata con il contributivo soltanto a partire dai contributi versati dopo il 2012. Un sistema che si applica a chi, prima del 2012, ricadeva nel ben più generoso metodo retributivo, ovvero chi al gennaio 1996 aveva più di 18 anni di contributi.
Diversa e più dolorosa la situazione della generazione dei 40enni, quella occupata dopo il 1996. In questo caso l’assegno non è più determinato in base al metodo retributivo (che assegnava una pensione che poteva arrivare fino all’80% dell’ultimo stipendio), ma in base ai contributi versati. E quindi carriere precarie e caratterizzate da buchi contributivi, come quelle che oggi vivono molti giovani, produrranno in futuro una pensione da fame. Lo stesso accade se si inizia tardi a lavorare. Senza dimenticare che per i lavoratori del sistema contributivo non sono più previste integrazioni sociali o maggiorazioni al minimo, di cui invece godono i cittadini che ricadono nel sistema retributivo. Se a ciò si aggiunge che i contributi accantonati si rivalutano ogni anno in base al pil dell’Italia, è evidente il legame tra la forza economica del Paese e i futuri assegni Inps. La crisi, infatti, ha provocato negli ultimi anni una perdita di pil del 10% che peserà non poco sulla rivalutazione del montante previdenziale di chi oggi ha da 30 a 40 anni. E che ha quindi anche meno anni per recuperare. (riproduzione riservata)