di Andrea Di Biase
Il dibattito sui futuri assetti del capitalismo italiano si arricchisce della testimonianza di uno dei protagonisti della svolta che ha sancito la fine dei patti di sindacato e delle partecipazioni incrociate: l’ad di Mediobanca, Alberto Nagel. Colui che, un po’ per convinzione e un po’ per necessità, negli ultimi anni si è fatto promotore del superamento di quello schema che per anni aveva avuto proprio nella banca fondata da Enrico Cuccia il suo architrave.
Ma proprio la fine dei patti, tanto celebrata dai cantori del libero mercato e del capitalismo di matrice anglosassone, se da un lato ha reso più in linea con i tempi la struttura di controllo di molti gruppi industriali e finanziari italiani, dall’altro ha posto sul tavolo nuove questioni. E il capitalismo finanziario italiano sembra ora trovarsi senza un modello alternativo cui guardare. Tanto che, anche di recente, qualche osservatore, ha ravvisato nella decisione delle grandi banche e assicurazioni di dismettere partecipazioni e sciogliere gli intrecci azionari un pericolo per la stabilità e lo sviluppo delle grandi imprese quotate, quasi a richiamarle alle proprie antiche responsabilità. Una posizione che Nagel, intervenuto ieri alla presentazione della Biblioteca Storica di Mediobanca, ha inquadrato all’interno di un dibattito da lui stesso definito «schizofrenico». «Da un lato auspichiamo tutti o si auspica la cancellazione, l’abolizione dei patti di sindacato, salvo poi qualche mese dopo aver paura di una navigazione in mare aperto», ha affermato l’amministratore delegato: della banca d’affari. «Si fa riferimento a modelli di capitalismo anglosassone», ha osservato Nagel, ma poi «ci si dimentica che nel capitalismo anglosassone le azioni a voto plurimo, e altro che plurimo, sono molto diffuse». Nel ricordare la figura di Ariberto Mignoli, già ideatore e presidente del patto di Mediobanca, e la cui vastissima collezione di testi (circa 12 mila volumi) finirà nella Biblioteca storica della banca, Nagel ha sottolineato che «gli assetti del nostro capitalismo sono frutto della storia italiana, devono essere collocati nel periodo in cui si sono prodotti e con la storia devono evolvere». Pertanto, sostiene l’ad di Mediobanca, «è impossibile immaginare oggi nuovi demiurghi, come ogni tanto ci viene dato da leggere, che siano pubblici o privati da un lato, e dall’altro lato auspicare che il mercato faccia il suo corso». La ricetta di Nagel sembra invece essere un’altra. «Secondo me è importante rimettere al centro il ruolo del consiglio di amministrazione. A mio avviso in molte analisi, in molti dibattiti, viene data una eccessiva importanza alla struttura degli azionariati per mettere in ombra, o in un ruolo più junior, quello che invece in tutti gli altri ordinamenti, in tutte le altre esperienze, assume un ruolo molto più importante, cioè la responsabilità i doveri e alla fine i risultati che determina l’azione del cda». Anche perché «consigli di amministrazione che funzionano bene, che producono risultati, producono quindi azionariati e aziende che stanno sul mercato senza necessità di un usbergo che sia di tipo privato vecchio stile o di tipo pubblicistico di nuovo stile». Una ricetta che Mediobanca non sembra intenzionata a rinnegare, visto che Nagel ha ribadito la volontà di disimpegnarsi dal capitale di Telecom. (riproduzione riservata)