Paolo Possamai
Trieste S ono trascorsi cinque mesi da quel giorno di fine aprile quando ha chiuso la sua lunga stagione al timone di Generali. Dal suo ufficio al palazzo rosa in piazza Duca degli Abruzzi, Giovanni Perissinotto ha avuto il mare dinanzi per dodici anni. Un altro mare gli si apre di fronte adesso, mentre per la prima volta coram populo ragiona di quel che ha lasciato dietro di sé e dei progetti a venire. «Sono stato fortunato a vivere un periodo così lungo. Il mio avvicendamento era più che giusto. Solo mi offende che il ricambio non sia avvenuto, come è proprio delle grandi compagnie, in modo programmato e ordinato», considera l’ex ad del Leone. Ma quali sono state le ragioni di una rottura tanto repentina? «Non so. Mi viene messa in conto la performance del titolo, che risentiva ovviamente del giudizio dei mercati rivolto all’Italia. Vendere Generali era come vendere il rischio Paese Italia. Era il mio turno di guardia, ho preso la grandine e questo ci sta». L’andamento del titolo le è stato infatti apertamente rimproverato da vari azionisti, tra cui Del Vecchio. Ma dei suoi 12 anni alla testa di Generali rimpiange qualche occasione perduta? «Ho operato sempre nell’interesse della società, va da sé che alcuni interventi sono riusciti e altri meno. Un saldo positivo lo vedo, se penso che avevamo un rating superiore di due gradini allo Stato, che capita in pochissimi casi. E poi penso allo sviluppo maturato su scala internazionale e, tra le mosse che qualcuno
oggi contesta, al rapporto con Kellner, che ci ha permesso di tornare nei mercati del-l’Est Europa con ottimi profitti. Alla voce ‘occasioni perdute’, metterei quelle non conseguite per carenza di risorse. Al management spetta selezionare e presentare le idee, all’azionista sostenerle o non coglierle». Sta richiamando la questione del mancato aumento di capitale, non voluto da Mediobanca. Ma tra i fattori scatenanti della sua detronizzazione non mette in conto pure la vicenda FonSai-Unipol, con annesso ruolo di Mediobanca? «Mi ha fatto impressione pensare che il nostro azionista principale stesse creando il nostro competitor maggiore e l’ho detto apertamente. D’altra parte, emerge con evidenza il contrasto di interessi tra azionisti FonSai e creditori bancari, tra i quali cito Mediobanca e Unicredit. Mediobanca, inoltre, ha pure giocato un ruolo da protagonista nell’intera partita. Materia su cui si stanno interrogando le Autorità competenti, compresa la magistratura». Dal suo punto di vista, come giudica in sé la tribolata fusione tra Unipol e FonSai? «Si tratta di un’operazione molto critica, poiché se una fusione a due è di norma difficile, a quattro è roba da far rizzare i capelli. E con i vincoli imposti in questo caso dalle Autorità regolatorie, mi pare anche un grande azzardo. Non capisco poi che c’entri il business assicurativo con i libretti di risparmio delle cooperative e come, in termini di missione, stiano insieme l’occuparsi di finanza e il disegno di socialità proprio delle cooperative ». A suo avviso, Isvap e Consob hanno prestato alla vicenda FonSai tutta la necessaria vigilanza? «La funzione del regolatore pretende di essere fondata su una riconosciuta autorità morale. Stando alle indagini in corso, l’Isvap nella vicenda FonSai pare sia stata assai disattenta. La credibilità delle Autorità chiamate a regolare il mercato è una questione nodale, che sta dentro alla grande sfida cui è chiamata l’Italia: rigenerare le condizioni per liberare le energie imprenditoriali del Paese, oggi gravate da un peso fiscale abnorme, da una burocrazia bizantina, da un livello di corruzione altissimo. Tutte barriere che fanno molto comodo a chi non vuole il cambiamento. E io personalmente mi vorrei spendere a dare una mano ai nostri imprenditori, ai giovani soprattutto ». Sta su questo solco il suo impegno a venire? E con quali compagni di strada? Tra di essi figurano, per esempio, Finanziaria Internazionale e Palladio Finanziaria? «Parto dalla convinzione che la mia stagione di manager sia conclusa. Mi piace l’idea di contribuire a valorizzare management giovane, fornendo i capitali a supporto. Dobbiamo imparare a rovesciare l’ottica distorta che ci ha pervasi negli ultimi anni: la finanza è a servizio del sistema produttivo, non viceversa. Nei cinque mesi scorsi, che considero uno spezzone del mio anno sabbatico post Generali, ho incontrato vari grandi investitori internazionali e soprattutto americani. E vedo grande attenzione e grande rispetto per l’Italia e per la sua classe imprenditoriale, che nonostante tutto sta tenendo a galla un paese che altrimenti sarebbe precipitato nel baratro. Quanto a Finint e Palladio, penso siano guidati da imprenditori validi, ma non li ho coinvolti in nulla dei miei nuovi progetti». Sta immaginando un fondo di investimento e con quale raggio di azione? «In primis mi interessa aiutare manager e imprenditori italiani, con il sostegno di investitori di profilo internazionale. Gente interessata a investire ne ho trovata, occorre selezionare le idee e i progetti d’impresa in cui credere. Vedremo poi se lo strumento più idoneo sarà un fondo o una finanziaria. Di sicuro sono convinto che occorre preservare a ogni costo la presenza del manifatturiero in Italia, che è un asset prezioso. Dobbiamo ritrovare un orizzonte temporale e ideale che vada al di là di una finanza biecamente speculativa. La ricerca spasmodica del profitto a breve termine, la vita delle aziende regolata sulla base dei report trimestrali è una esasperazione malsana. A me pare che abbiamo ampia materia su cui ragionare, relativamente alle chiavi di lettura fondamentali dell’economia odierna su scala globale». È una questione di norme giuridiche o è una partita culturale? «L’una e l’altra. A mio avviso, dovremmo avere il coraggio di considerare che la globalizzazione ha avuto nel complesso scarsi effetti positivi per i consumatori e riverberi drammatici sul sistema industriale. Non è sempre vero che le grandi dimensioni implichino per forza maggiore efficienza. A me pare che, come la risoluzione Volker indica, sarebbe bene distinguere e regolamentare nettamente le varie attività bancarie. Salvo che non vogliamo sempre pagare il conto di fallimenti e risanamenti. E direi anche che non possiamo tollerare che le grandi banche mondiali definiscano da sé le regole cui si sottomettono. Non è affatto vero che il mercato si autoregola. I futures sulle commodity, per esempio, rappresentano un bisogno dell’economia reale, ma se costituiscono il 10% di quanto viene effettivamente scambiato, allora vuol dire che la parte residua risponde a altri criteri. Se la finanza non deve essere un gioco ma uno strumento al servizio della economia reale, non ho nessun dubbio sul fatto di tassare in modo forte il day trading. Non sto esponendo mie tesi o interrogativi solo miei». Le pare, come sostiene Monti e come indica pure Draghi, che stiano emergendo indizi di superamento della crisi? «Sono convinto che la mossa di Draghi, che ha garantito liquidità ai mercati, abbia tamponato un inferno potenziale e che l’Italia ha dimostrato, una volta di più, una capacità di reazione all’emergenza davvero straordinaria. I primi segnali di fiducia stanno palesandosi, basta guardare al ritorno delle banche sul mercato obbligazionario. Ma detto che il punto peggiore penso sia alle spalle e che le manovre hanno messo una toppa, dobbiamo andare a una vera integrazione a livello europeo, rinunciando a parte della sovranità nazionale. Da soli siamo troppo piccoli per incidere, come Europa avremmo il peso adeguato e però occorre parlare con una voce unica. La moneta unica non basta, anzi da sola può essere una trappola». Nella foto qui sotto, l’ex amministratore delegato di Generali, Giovanni Perissinotto a lato la sede di Mediobanca