Sara Bennewitz
C’ è un fil rouge che lega assieme le sorti e i mutamenti registrati in Camfin, Impregilo, Marcolin e RcsMediagroup. Tante sono le differenze, ma una è la causa che ha portando queste quattro aziende verso un cambiamento. L’origine della mutazione sta nell’approssimarsi della scadenza dei patti di sindacato che vincolava azionisti variegati, per peso, caratteristiche, forza finanziaria e interessi, che in questi mesi hanno preferito prendere strade diverse dai soci con cui, in tempi meno critici, avevano condiviso la stessa strategia industriale. Con la crisi del credito e dell’industria, i fondi sono diventati una merce ancor più rara.
Milano P erfino per un capitalismo, come quello nostrano, cronicamente connotato dalla scarsità di mezzi. L’invenzione delle scatole di controllo e dei patti di sindacato è il modo con cui il sistema tricolore si è protetto per anni dalle incursioni ostili. Solo che, da quando il Testo Unico della Finanza ha deciso che di fronte a un’Opa ogni patto decade, il valore di questi accordi ha perso una delle principali ragion d’essere. Da allora però poco è cambiato, perché se è vero che le matricole non si sono affacciate al mercato dei capitali sotto l’egida di un patto, e anche vero che i vecchi accordi, quelli dei salotti buoni, tra qualche defezione e qualche nuovo innesto, sono per lo più rimasti in vigore. L’Opa fa sì cadere ogni legame tra i soci, ma il patto che governa su una solida
maggioranza è comunque un disincentivo a lanciare un’offerta ostile. Detto questo la contendibilità è un valore che arricchisce le aziende quotate e di per sé questo dovrebbe essere già un buon motivo per sciogliere i patti, o quantomeno per scremare i sindacati di blocco a pochi azionisti, con caratteristiche omogenee tra loro. Ogni buona regola è rafforzata dalle dovute eccezioni. Nel caso delle piccole utility il sindacato può essere uno strumento utile, che si traduce più che altro in un accordo politico, con cui viene garantita la maggioranza ‘pubblica’ delle ex municipalizzate quotate. Un sistema che ha proliferato ancor di più quando le utility hanno cominciato a fondersi tra loro e che ha causato qualche grattacapo a gruppi come A2a e Iren. Non è così per Hera, l’utility che a giorni dovrebbe suggellare le nozze con AcegasAps che secondo gli esperti è la municipalizzata con la governace più trasparente, tant’è che può fregiarsi di un azionista come la Cdp. Un altro settore che per consuetudine ha largamente fatto uso dei patti è quello del credito. A detta di chi fa il banchiere di mestiere, bisogna però fare un distinguo tra gli istituti controllati da azionisti privati come il Credem e Mediolanum e tutte le altre banche, commerciali o d’investimento che siano. Inoltre ora che l’Europa è intervenuta a uniformare i criteri di solidità e patrimonializzazione, in molti si aspettano che la moral suasion intervenga anche a scardinare la governance di certi istituti. Del resto il presidente della Bce Mario Draghi è lo stesso che nel ’98 ha sostenuto la coraggiosa riforma del Tuf e di sicuro ha ben presente quali siano le differenze tra le banche tricolori rispetto a quelle del Vecchio continente. Tra le italiane il patto più ingombrante è quello di Mediobanca, che scadrà a fine 2013. Se l’origine di quell’accordo aveva un senso ai tempi di Enrico Cuccia, oggi l’opportunità di tenere le azioni vincolate tra soci di varia natura perde un po’ di significato. Del resto Generali non è governata da un patto e per operare una profonda modifica come quella che lo scorso giugno ha costretto Giovanni Perissinotto a lasciare le redini del gruppo assicurativo, non c’è stato bisogno del sigillo di un sindacato né del placet del patto che governa su Mediobanca. Quello che in Italia non è stato cambiato dalle riforme, potrebbe però essere smantellato dal perdurare della crisi, e nei consigli di alcuni aziende si iniziano ad avvertire le prime scosse che potrebbero essere foriere di un rinnovamento. Il patto di Marcolin, ad esempio, sarebbe scaduto a fine 2013 e per quella data i soci avrebbero dovuto o trovare un accordo sul futuro piano d’investimenti, o una via d’uscita che si è presentata sotto la forma di un assegno da 265 milioni firmato da Pai Partners. Dopo Marcolin, la stessa sorte potrebbe capitare alla Sorin, società che da anni è in cerca di un compratore, e il cui patto, che sarebbe dovuto scadere a novembre, è stato rinnovato solo per altri 12 mesi. Il caso è leggermente diverso per Impregilo, che fino allo scorso marzo era governata da Igli, un condominio di tre azionisti paritetici dove ognuno aveva diritto di veto sulle decisioni dell’altro, una governance che insieme alla vicenda di Acerra ha tenuto l’azienda in stallo per sette anni. E così quando lo scorso settembre la finanziaria che controllava il 29,9% della società di costruzione ha dovuto rifinanziare i suoi debiti, il costruttore romano Pietro Salini è entrato nell’azionariato a gamba tesa, conquistando infine il consiglio del gruppo.La rivoluzione compiuta da Salini difficilmente potrebbe verificarsi in aziende strategiche come Telecom Italia, dove è Telco il custode del 22% del capitale. Solo che anche nella finanziaria che controlla il colosso telefonico si avvertono scricchiolii. I soci italiani, vale a dire Intesa, Mediobanca e Generali, sono consapevoli che non recupereranno mai quanto investito nel 2007 per liquidare la Pirelli di Marco Tronchetti Provera, e in questi giorni sono anche preoccupati dal fatto che Telefonica, l’unico partner industriale di Telco, è pressata dai debiti e deve gestire una crisi senza precedenti nel suo Paese d’origine che difficilmente la porterà a fare nuovi investimenti in Telecom. Questo a breve potrebbe diventare un problema, perché nel settembre 2013 i soci che volessero potrebbero richiedere la scissione della società come fecero i Benetton nel 2009. Anche la famiglia di Ponzano Veneto, nei prossimi mesi avrà qualche gatta da pelare. Ora che finalmente è stato approvato l’accordo di programma sulle tariffe (anche se mancano le firme del ministero dello Sviluppo e dell’Economia), il patto che governa Gemina sarà messo a dura prova dalla necessità di nuovi capitali per rilanciare gli Aeroporti di Roma. Ed è per questo che la scorsa estate alcune banche d’affari, tra cui Imi, hanno recapitato nel quartier generale di Sintonia uno studio per integrare Atlantia con Gemina e mettere a fattor comune i flussi di cassa e le competenze per sviluppare un gruppo integrato delle infrastrutture. In casa Pirelli si lavora invece su quattro piani diversi, da Gpi a Camfin passando per Prelios e finendo con il gruppo degli pneumatici. Mentre la società degli immobili ha già avviato un percorso che porterà a far spazio nel capitale alla Feidos di Massimo Caputi, Tronchetti Provera dovrà gestire la successione in Gpi e Camfin del socio Malacalza in vista della scadenza del sindacato attesa per luglio. Ma il numero uno della Bicocca dovrà preoccuparsi anche del sindacato di Pirelli che scadrà in primavera. A questo proposito, l’idea di Tronchetti sarebbe quella di snellire il patto allargando l’azionariato ad alcuni investitori istituzionali con un profilo internazionale, che potrebbero prendere il posto di altri soci italiani tra cui quello di Fonsai, ma magari anche di Allianz e Generali. Pirelli è infatti una delle poche aziende che a dispetto della crisi ha dato buoni ritorni, e le compagnie assicurative potrebbero liberare le azioni per contabilizzare significative plusvalenze. Il record quanto a numero di patti spetta a Rcs e se l’accordo che governa su via Solferino è stato abbagliato da un lampo, che ha portato Diego Della Valle a svincolarsi dall’accordo, il tuono non è ancora arrivato. Chissà che la ricapitalizzazione necessaria anche per dotare l’azienda delle risorse con cui ripartire, non sia la goccia che fa traboccare il vaso distruggendo e creando nuovi equilibri. Anche perché su un’azienda con un flottante ridotto al 10% convivono tre diversi accordi: uno di blocco sul 58% del capitale, uno tra Giuseppe Rotelli e il Banco Popolare che fa dell’imprenditore il primo azionista singolo con il 16,5% del capitale, infine quello di Alessandro Proto, che raggruppa il 2,8% del capitale.