di Anna Messia

 

Il 2008 è ricordato come un periodo molto difficile per l’industria del risparmio gestito, costretta a fare i conti con risparmiatori che liquidavano al ritmo di 10 miliardi al mese gli investimenti in fondi comuni. Sembrava dovesse essere quello l’annus horribilis dei fondi italiani. Invece quelle stesse paure si sono riaffacciate qualche giorno fa, quando Assogestioni ha reso noti i dati di raccolta del sistema dello scorso settembre, mese durante il quale sono stati riscattati 6 miliardi di euro, portando a 14 miliardi il rosso dall’inizio dell’anno.

E la recente fuga sembra essere solo l’inizio di un nuovo periodo nero. «Per capire cosa sta accadendo bisogna considerare che la situazione attuale è il frutto di due circostanze che stanno colpendo l’industria», spiega a MF-Milano Finanza Paolo Gualtieri, professore di Economia degli intermediari finanziari alla Cattolica e ascoltato consulente di banche e società di gestione con la advisory firm Gualtieri & Associati. «Da una parte siamo ancora dentro la crisi finanziaria iniziata nell’agosto del 2007, e i fondi comuni continuano a soffrire perché per loro natura seguono i cicli economici», sostiene Gualtieri. A questo si è aggiunto un altro fattore contingente che rischia di arrecare nuovi pesanti danni al risparmio gestito italiano: «I fondi sono succedanei di altri prodotti d’investimento, come le obbligazioni, e in questo periodo le banche li stanno trascurando per preferire la raccolta diretta.

 

Un fenomeno probabilmente destinato a continuare nei prossimi mesi». L’industria, insomma, è avvertita: lo scivolone dello scorso settembre potrebbe essere solo il primo segnale di un nuovo periodo buio.

Ma le società di gestione, che arrivano già da un periodo difficile, oggi non sembrano avere abbastanza anticorpi per affrontare un’altra sfida impegnativa come quella del 2008. Per rendersene conto basta dare un’occhiata ai patrimoni che le primi dieci Sgr operanti in Italia amministravano a fine giugno scorso rispetto a tre anni. Tranne qualche rara eccezione, come Mediolanum che è riuscita addirittura ad aumentare il patrimonio da 14 a 20 miliardi, la maggior parte ha visto inesorabilmente calare le risorse in gestione. Il patrimonio di Intesa Sanpaolo, per esempio, è passato da 121 a 112 miliardi. Quello di Pioneer, la sgr del gruppo Unicredit, si è ridotto addirittura di 27 miliardi, a quota 62. Reggere la sfida di operatori internazionali dalle spalle più larghe diventa così sempre più difficile. Anche perché il mercato italiano è più complicato di altre piazze, nonostante i fondi italiani dallo scorso luglio siano finalmente tassati come quelli esteri, ovvero solo al momento del disinvestimento, senza più penalizzazioni. «Era una riforma che andava fatta, ma non è la panacea di tutti i mali. Eliminare i disequilibri non è in sé garanzia di ripresa», dice Gualtieri. Ci sono insomma altri problemi che vanno risolti. «In Italia, per esempio, mancano gli investitori istituzionali che in genere sono i soggetti di riferimento di un gestore indipendente. Da noi ci sono soprattutto le Fondazioni che però investono la liquidità nelle banche azioniste. Oggi più di ieri». E poi qualche colpa ce l’hanno anche i gestori che continuano a preferire «prodotti a benchmark, che seguono il mercato e non danno valore aggiunto ai clienti», continua Gualtieri, che però non è affatto pessimista sul futuro del comparto. «Parte del risparmio degli italiani è necessariamente destinato ad andare verso operatori esteri internazionali», conclude Gualtieri, «ma in Italia ci sono le capacità e le energie per innovare e creare un operatore in grado di attrarre patrimoni provenienti da Paesi in crescita, come la Cina. Anche nei fondi servono imprenditori coraggiosi, con un progetto di lungo termine, come quelli che hanno portato al successo le aziende italiane nel mondo». (riproduzione riservata)