Di Laura Magna
Cento miliardi di euro. È la cifra da capogiro che manca al patrimonio delle banche d’Europa, le stesse uscite indenni dagli stress test dello scorso luglio. Le banche italiane, in questo contesto, sono al terzo posto, dietro a Grecia e Spagna, quanto a fabbisogno di ulteriori capitali: mancano all’appello circa 15 miliardi. Non c’è tregua insomma per i gruppi finanziari del Vecchio Continente, ancora nell’occhio del ciclone a causa dell’infinita tragedia Grecia, che rischia, se non arginata in tempi rapidi, di espandersi al nostro Belpaese e di diventare incontenibile. Così i ministri delle Finanze dei 27 dell’Unione hanno deliberato alcune novità: la più importante è portare il Core Tier 1 al 9%, dal 7% previsto da Basilea 3. E nel mercato si sono subito rincorse le voci dell’eventualità che possano essere effettuati a breve nuovi esami per valutare la solidità patrimoniale degli istituti di credito della regione. Quelli finora effettuati mettevano sotto osservazione solo il trading book: ma gran parte degli asset potenzialmente tossici, i titoli di Stato, sono contenuti nel banking book. Test realmente significativi dovrebbero innanzitutto contemplare questa variabile, come hanno confermato a B&F gli esperti interpellati. Ma si tratterebbe davvero di una panacea? «Quando e se verrà fatta una simile operazione (nuovi stress test, ndr) – dice Franco Benini, dell’ufficio studi di Copernico Sim – sarà cruciale lo stato di salute dei Btp al momento del calcolo. Tutto questo ancora in un’ottica di Core Tier Ratio, ma non dimentichiamo che Dexia è quasi fallita con un Core Tier sempre abbondantemente entro i parametri richiesti. Il problema forse non è tutto là». Allora, lo stato di salute dei Btp è altrettanto importante. Non fosse altro perché «le prime cinque banche italiane hanno in pancia 147 miliardi di Btp, l’intero sistema circa 200», spiega Riccardo Alaimo, gestore di NorVega Sgr. Per entrare nel dettaglio delle singole banche, «Intesa è sicuramente esposta sul fronte Btp, ma può fare leva su un capitale importante – afferma Guido Crivellaro, responsabile team azionario di Symphonia Sgr (Bim) – L’impatto su Unicredit è più diluito data la maggiore diversificazione geografica, ma si contrappone a un livello di capitale più basso. Significativo può essere anche l’impatto sulle banche domestiche minori che già non brillano per elevate capitalizzazioni». Come le banche cooperative, che subito si sono scagliate contro la proposta europea. Sottolineando, in una nota emessa dall’Associazione delle banche cooperative europee, che «le cooperative, che non possono, a differenza delle banche spa, ricorrere al mercato dei capitali per patrimonializzarsi, potrebbero essere costrette nel breve termine a tagli drastici nei propri attivi di bilancio per incrementare i ratio patrimoniali, con un impatto negativo sul finanziamento all’economia reale e, specificamente, delle piccole e medie imprese».
LE BIG FIVE ITALIANE. Insomma, l’intero sistema domestico è nell’occhio del ciclone, cooperative come banche di sistema. «Secondo la European Banking Authority – continua Alaimo – Intesa Sanpaolo ha un’esposizione al debito italiano di 60,2 miliardi di euro, circa il doppio del Core Tier 1 Capital di cui può disporre. Per Unicredit il rapporto sarebbe di 49,1 miliardi contro 35,3; mentre peggiore, in misura relativa, risulterebbe la posizione del Monte dei Paschi con 32,5 miliardi su 7,1 miliardi di Core Tier 1 Capital. Infine tra le più esposte vengono citate anche Banco Popolare, con un rapporto di 11,8 miliardi contro 5,6, e Ubi Banca con un rapporto di 11,8 su 7,2 miliardi». Le cinque maggiori banche italiane, in ogni caso, si sono immediatamente espresse sul tema. L’unica che non avrà necessità di ulteriore capitale è Intesa Sanpaolo, il cui Core Tier 1, al 30 giugno scorso, era già al 10,2 per cento. La più a rischio è invece Unicredit, che ha un deficit di capitale stimato dall’Eba in 7,379 miliardi. «Non ci sorprende», ha commentato l’ad Federico Ghizzoni, che poi ha spiegato: «Sono 7,3 miliardi, però senza considerare i cashes (compresi i quali il buffer si riduce a 4,396 miliardi, ndr). È quindi gestibile». Come? «Per quanto concerne Unicredit – sostiene Andrea Vercellone, analista di Exane Bpn Paribas – sebbene la decisione del management sul livello di capitale arriverà solo dopo la finalizzazione del Sifi e la banca stima una richiesta di capitale addizionale al buffer range, nel nostro scenario centrale riteniamo possibile un aumento di capitale, possibilmente di 5 miliardi di euro, entro fine anno, probabilmente in occasione della presentazione del nuovo business plan». Seconda per esigenze di capitali è Mps, che avrebbe bisogno di 3,091 milioni. Che Rocca Salimbeni intende ottenere dalla conversione del prestito Fresh e l’esclusione dell’effetto negativo sulla riserva Afs (attività disponibili per la vendita) del rischio tasso sulle coperture del portafoglio titoli di Stato.
Ancora, a Ubi Banca servono 1,48 miliardi che la banca mira a coprire «grazie alla combinazione della riserva costituita dal prestito convertibile, all’azione di deleveraging in corso e a un coerente autofinanziamento». Nessun ricorso al mercato, quindi. Come Banco Popolare, che vuole recuperare i 2,8 miliardi necessari attraverso la conversione del prestito soft mandatory e ulteriori azioni di capital management. Il 26 novembre un’assemblea straordinaria modificherà il regolamento per consentirne la conversione integrale. Tuttavia, anche dopo la conversione il Banco avrebbe bisogno di ulteriori 500 milioni. «Il Banco – continua Vercellone – ha compiuto un passo interessante nella giusta direzione annunciando la fusione della rete della banca nella casa madre. Secondo il management, la riorganizzazione aumenterà il reddito netto di 44 milioni di euro nel 2013 (90 milioni entro il 2016) grazie ai minori costi di gestione e alla minore tassazione. Sebbene il ricorso del gruppo al finanziamento istituzionale sia basso (20% del totale) e la struttura Alm di Banco Popolare sia equilibrata, riteniamo che i costi medi di finanziamento resteranno superiori a quelli dei peers a causa del recente downgrading. Il gruppo presenta inoltre dei ratio di capitale bassi rispetto ai peers. Dato che dopo l’aumento di capitale di 2 miliardi a inizio anno difficilmente Banco Popolare procederà con un’ulteriore operazione di tale tipo, il gruppo può rafforzare i ratio di solvibilità in modo organico chiedendo la conversione della convertibile emessa o attraverso la dismissione di asset, tra cui la partecipazione del 20% in Agos». Il dato dei 14,7 miliardi, in ogni caso, è soggetto a interpretazione. «In effetti – spiega Guillaume Tiberghien, analista banche di Exane Bnp Paribas – considerando nella definizione di core capital il cash a disposizione di Unicredit (3 miliardi), gli strumenti a disposizione di Mps (2,5 miliardi) e i Tremonti bond che Mps non ha ancora ripagato (1,9 miliardi), tale fabbisogno complessivo si restringerebbe a 7,3 miliardi. E ipotizzando che Ubi e Banco Popolare saranno autorizzate, da metà del prossimo anno, a tener conto dei risked weighted asset, il valore dovrebbe ridursi, entro giugno 2012, ancora per 1,5 miliardi di euro».
NORD EUROPA IN CHIAROSCURO. In generale l’Europa meridionale è più a rischio in questa fase, in quanto, aggiunge Alaimo, «Deutsche Bank ha un’
esposizione alla Grecia, ma per il resto ha molti Bund tedeschi, che potrebbero addirittura beneficiare del mark to market, e Oat francesi. Il costo da pagare sarà relativamente limitato per le grandi banche tedesche che avranno bisogno di circa 5 miliardi di nuovo capitale, mentre le francesi dovranno raccogliere circa 9 miliardi». Ovviamente non tutti gli istituti di credito oltre il confine italiano sono al riparo dagli scossoni. «Non riteniamo che Bnp Paribas e Natixis possano trovarsi in una situazione di fabbisogno di capitale – sostiene Tiberghien – Le due dovrebbero essere in grado di raggiungere un Core Tier 1 rispettivamente del 9,5% e dell’8,5% nel 2011 tenuto conto di perdite mark to market e del pagamento del dividendo in cash per Bnp. Sebbene inferiore, il livello di Natixis dovrebbe essere considerato soddisfacente tenuto conto dei legami con Bpce». Situazione più critica per Crédit Agricole e Societé Générale. «Infatti – prosegue Tiberghien – qualora la prima dovesse raggiungere un Core Tier 1 del 7,5% a fine 2011 o superiore all’8,3% nel 2012, dovrebbe procedere con un’emissione di titoli azionari. Per quanto riguarda SocGen, si creerebbe un fabbisogno di capitale qualora il player dovesse raggiungere un Core Tier 1 del 9% nel quarto trimestre 2011, ma nessun fabbisogno se tale valore deve essere raggiunto entro giugno 2012». In generale, comunque, molto dipende da come evolverà lo scenario. In uno scenario in cui viene considerata una perdita mark to market sul debito sovrano banking book e la conformità ai requisiti di Basilea III nel 2013, il fabbisogno e «le esigenze di capitale – spiega Tiberghien – sarebbero comprese tra 6 e 12 miliardi. In tale caso sarebbero cinque le banche in una situazione di short capital e cioè Raiffeisen Bank, Monte dei Paschi, Unicredit, Banco Pastor e Lloyds Banking Group. Mentre le francesi, Erste Bank e Barclays potrebbero sostenere un mark to market delle esposizioni sovrane restando conformi ai criteri di Basilea III». Se, invece, si contempla la possibilità, per la verità remota, di un haircut sulle obbligazioni governative, «il fabbisogno di capitale – aggiunge l’analista di Exane – sarebbe di 186 miliardi. Il ratio tangible equity settoriale registrerebbe un calo di 43 miliardi: ciò implica che solo le banche italiane e spagnole avrebbero, a causa della loro esposizione domestica, un calo a doppia cifra del tangible equity». Non va dimenticato, in ogni caso, che le banche francesi e tedesche sono molto esposte verso i Piigs «per qualcosa come 162,49 miliardi e 106,44 miliardi, rispettivamente, secondo la Banca dei regolamenti internazionali – conclude Benini – Dunque rischiano molto, anche se molto è stato fatto nell’ultimo anno per alleggerire le esposizioni. Tuttavia il vero problema rimane il persistente utilizzo della leva finanziaria da parte di questi istituti, che non può neppure essere diminuita troppo rapidamente. L’Europa come di incanto sembra aver trovato un accordo forte e condiviso sui problemi inerenti la situazione dell’Eurozona. L’idea trasmessa è che non si lascerà fallire nessuno, che ci siano o meno i soldi ha un’importanza relativa, conta che ciò venga percepito come un impegno concreto. I mercati volevano un segnale forte dalla Ue ma la parola effetto leva può far storcere il naso a chi ha una memoria storica appena superiore ai 24 mesi».