di Carlo Giuro
Tra i diversi profili pensionistici che il Governo che discenderà dal risultato elettorale del 25 settembre dovrà affrontare vi è quello di come rilanciare la previdenza complementare. Sulla base dei dati relativi all’anno 2021 pubblicati dalla Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip) risulta che le adesioni sono significativamente aumentate nel corso del tempo, anche per effetto della riforma del 2007. Il numero degli iscritti è risultato pari a circa 8,8 milioni a fine 2021, 9,7 milioni in termini di posizioni. Sulla base di tali tendenze è prevedibile un ulteriore progressivo aumento delle adesioni, anche in virtù del peso crescente della quota di lavoratori interamente assoggettati al calcolo contributivo. Se confrontato con l’inizio del 2007, anno di avvio della riforma della previdenza complementare, il totale delle risorse destinate alle prestazioni si è quadruplicato, passando da 51,6 a 213,3 miliardi di euro a fine 2021, corrispondenti a circa il 10% in termini di crescita media annua composta. Il flusso di contributi del 2020 relativamente a tutti gli iscritti è stato pari a circa 17,6 miliardi di cui 7 relativi a quote annuali di accantonamenti di tfr destinate alla previdenza complementare dai lavoratori dipendenti del settore privato. Occorre però favorire un salto di paradigma per favorire un maggiore livello di inclusione previdenziale nei confronti di categorie come giovani, donne, dipendenti pubblici, dipendenti delle pmi e una crescita dimensionale dei fondi pensione per fare in modo che possano interpretare con maggiore efficacia il ruolo di investitori istituzionali a supporto dello sviluppo economico.
Tra le diverse ipotesi di cui si è discusso nel corso della legislatura vi è quella di riproporre il meccanismo del silenzio assenso accompagnato da una campagna educativa istituzionali e di operare un restyling dei benefici fiscali.
Sull’indispensabile ruolo di integrazione pensionistica che le forme previdenziali interpretano appare particolarmente eloquente il recente aggiornamento fornito dalla Ragioneria generale dello Stato sul contributo dato al tasso di sostituzione sia lordo che netto.
Come viene sottolineato il tasso di sostituzione lordo esprime il rapporto fra l’importo annuo della prima rata di pensione e l’importo annuo dell’ultima retribuzione (o reddito da lavoro). Così definito, l’indicatore misura la variazione del reddito lordo del lavoratore nel passaggio dalla fase attiva a quella di quiescenza. A parità di carriera lavorativa, esso riflette le differenze legate alle diverse modalità di calcolo della pensione. Il tasso di sostituzione lordo non è però un indicatore di adeguatezza delle prestazioni. Tale funzione è affidata invece al tasso di sostituzione netto, il quale viene calcolato esprimendo sia la pensione sia la retribuzione al netto del prelievo contributivo e fiscale. In particolare, il tasso di sostituzione netto misura di quanto il reddito disponibile di un lavoratore si modifica a seguito del pensionamento. Pertanto esso riflette sia le regole di calcolo della pensione che gli effetti distributivi della normativa fiscale e contributiva. In ragione della progressività dell’imposta sul reddito personale e del fatto che l’aliquota contributiva a carico del lavoratore grava sulla retribuzione e non sull’importo della pensione, il tasso di sostituzione netto risulta significativamente superiore a quello lordo, a parità di ogni altra condizione.
L’introduzione della previdenza complementare modifica notevolmente l’andamento futuro dei tassi di sostituzione. Secondo le stime della Ragioneria generale dello Stato nel 2070 il tasso di sostituzione lordo passerà da 58,5% a 65,9% per i dipendenti privati e da 47,2% a 55,5% per gli autonomi, con un incremento rispettivamente di 7,4 e di 8,2 punti percentuali. Confrontando i valori del 2010 e del 2070 si evidenzia un decremento di 7,6 punti percentuali per i dipendenti privati e di 16,6 punti per gli autonomi. Con la sola previdenza obbligatoria le riduzioni sarebbero state, rispettivamente, di 15,1 e 24,9 punti percentuali.
Un effetto analogo si produce sui tassi di sostituzione netti. Nel 2070 i dipendenti privati raggiungono un valore pari al 76,8%, rispetto al 66,8% della sola previdenza obbligatoria. Per i lavoratori autonomi i valori corrispondenti sono invece stati calcolati all’85,6% e 68,5%. (riproduzione riservata)
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