di Marco Capponi
Il private equity italiano procede a due velocità. Da una parte crescono gli investimenti e si inizia a parlare di mega-deal, soprattutto nel campo delle infrastrutture (l’operazione Aspi è forse quella più importante del settore). Dall’altra, il periodo di permanenza delle aziende in portafoglio agli operatori rimane troppo elevato, perché mancano vie d’uscita, specialmente la borsa. Una fotografia emersa ieri dai dati semestrali di Aifi, associazione di categoria del private equity italiano, presentati in partnership con PwC alla presenza di Innocenzo Cipolletta e Anna Gervasoni, presidente e direttore generale di Aifi, e Francesco Giordano, private equity leader di PwC Italia.
Tra gennaio e giugno la raccolta complessiva è stata di 1,7 miliardi di euro, in calo del 40% rispetto al primo semestre del 2021. Sono cresciuti però gli operatori, arrivati a 26 (+24%), e soprattutto operazioni (338, +34%) e ammontare investito, 10,9 miliardi, più che doppio rispetto allo scorso anno.
Per Cipolletta il calo degli afflussi si può spiegare come un fenomeno fisiologico: «Lo scorso anno sono stati elevati, e quindi l’investimento quest’anno è stato maggiore. Al contempo, aver raccolto molto lo scorso anno ha ridotto gli afflussi del 2022, perché chi ha raccolto nel 2021 quest’anno non va in fundraising». Tra gli investimenti una quota importante è attribuibile al comparto infrastrutturale, il cui valore è stato prossimo ai 6,5 miliardi. I large e mega deal, con valore superiore ai 150 milioni, sono arrivati a 8,3 miliardi, contro i 2,5 di operazioni piccole e medie.
Guardando alle fonti della raccolta, la cui origine è per l’82% domestica, si nota come un quarto provenga dalle assicurazioni, seguite da fondi pensione (17%) e settore pubblico (12%) a pari merito con gli investitori istituzionali. «Tutti i canali di raccolta sono ancora bassi: i privati guardano ancora da poco tempo a queste asset class, e se pensiamo al risparmio in mano alla clientela privata di fascia alta ci rendiamo conto che gli spazi di manovra sono moltissimi», ha evidenziato Gervasoni. Per Cipolletta è oggi più che mai necessario incanalare il risparmio verso i mercati privati: «C’è bisogno prima di tutto di un cambio di paradigma culturale: i promotori devono conoscere lo strumento e saperlo spiegare ai risparmiatori, che a loro volta devono superare le loro resistenze verso prodotti così illiquidi».
A fronte degli investimenti in forte crescita, anche i disinvestimenti sono raddoppiati, passando a 1,5 miliardi. «I disinvestimenti sono stati soprattutto quelli di ammontare più elevato che in passato», ha sottolineato il presidente Cipolletta, ricordando però che il periodo di permanenza delle società nel portafoglio dei fondi (holding period) «è ancora alto, perché disinvestire non è agevole». In quasi la metà dei casi (49%) la ragione del disinvestimento è stata la vendita a un soggetto industriale, seguita al 37% dalla cessione a un altro operatore di private equity.
Stupisce solo fino a un certo punto non trovare tra le casistiche lo sbarco in borsa. «Noi operiamo principalmente su piccole e medie imprese», ha ricordato Cipolletta, «per le quali l’approdo in borsa risulta complesso». E poi, ha aggiunto, «i mercati quotati adesso, purtroppo, non sono attrattivi, e lo vediamo dai delisting e dalla mancanza di nuove ipo». La borsa, ha concluso il presidente, «ha meccanismi troppo complicati, che fanno fatica ad attirare le imprese a conduzione familiare». (riproduzione riservata)
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