Paola Valentini
Nonostante la pandemia, che ha provocato un abbassamento medio di circa un anno, per fortuna in Italia la speranza di vita resta tra le più alte al mondo, oltre l’asticella degli 80 anni, ossia circa un decennio in più rispetto al 1960. Se ciò è ovviamente positivo dal punto di vista generale, va sempre ricordato che l’invecchiamento demografico pesa sui conti pubblici in assenza di un aumento della natalità. Lo sa bene il governo Draghi, che è alle prese con la riforma del sistema di Quota 100, il meccanismo voluto dalla Lega e introdotto in via sperimentale nel 2019 per tre anni, che scadrà alla fine del prossimo dicembre e che ha prodotto impegni di spesa nel 2019-2021 di 11,6 miliardi di euro per 341 mila persone che hanno avuto accesso alla rendita anticipata con 38 anni di contributi e 62 anni di età. Una speranza di vita elevata, unita all’anticipo dell’uscita e al calo delle nascite, creano un mix insidioso per i conti dello Stato, considerando che il sistema previdenziale pubblico italiano funziona a capitalizzazione e quindi le pensioni di oggi sono pagate con i contributi di chi lavora.
La necessità però di dare al mercato del lavoro quella flessibilità in uscita che la riforma Fornero del 2012 aveva di colpo cancellato ha fatto che sì che negli ultimi dieci anni si siano susseguiti una serie di ritocchi all’impianto della rivoluzione introdotta dell’allora ministro del governo Monti. Quello che invece non si mette in discussione è il sistema contributivo, esteso a tutti i lavoratori sempre dal 2012 (seppur pro-quota per chi rientrava ancora nel retributivo). Il modello mette in relazione diretta gli anni di contributi versati con l’importo della pensione: meno si lavora, meno si ottiene. Di qui l’esigenza di introdurre qualche forma di integrazione al proprio assegno pubblico, a maggior ragione in vista di una qualche forma di maggiore flessibilità nel post-Quota 100, che permetterà di uscire dal lavoro prima dei 67 anni di età, soglia dell’attuale pensione di vecchiaia. «I fondi pensione, che sono strumenti di risparmio a capitalizzazione individuale, possono costituire un’opzione aggiuntiva attraverso la quale ciascun cittadino può pianificare con maggiore efficacia il suo futuro pensionistico», spiegano dal fondo negoziale Solidarietà Veneto.
Ma in questa fase di tassi ai minimi il problema è prevedere quali siano i rendimenti che possono essere generati dai risparmi investiti per la pensione di scorta, a seconda dell’asset class scelta. Da questa stima dipende il capitale finale che si sarà messo da parte alla fine della carriera lavorativa per verificare se, rispetto alle spese attese una volta in pensione, si avranno risorse sufficienti. Calcolare un tasso futuro, soprattutto in un orizzonte di lungo termine quale è quello pensionistico, non è operazione facile, ma, oltre all’ausilio del proprio consulente finanziario, la statistica può aiutare. I metodi di analisi sono due: ci si può basare sui rendimenti storici, e qui i dati a disposizione abbondano dato che le elaborazioni coprono gli ultimi cento anni e riguardano anche i dati reali che tengono conto dell’inflazione. L’altra possibilità è basarsi sulle proiezioni prodotte dalle case di investimento; da Vanguard a Pictet e da Robeco a BlackRock, sono numerose le società di gestione che periodicamente elaborano le previsioni sulle performance a lungo termine per le varie classi di attività.
«Le aspettative sui rendimenti azionari nominali per i prossimi 10 anni continuano a essere inferiori alla loro media storica e continuano a diminuire», segnala Edoardo Cilla, investment strategy analyst di Vanguard. «Tuttavia in termini relativi le aspettative sono più alte per la zona euro e i mercati britannici rispetto al resto del mercato globale, grazie alle valutazioni più convenienti». Ad esempio, per gli investitori in euro il rendimento nominale annuo mediano atteso da Vanguard a dieci anni è del +3,8% nell’azionario area euro, del +2,5% nell’azionario globale (senza area euro) e del +2,8% nei mercati emergenti. A 30 anni le aspettative di rendimento passano rispettivamente a +5,4%, +5,9% e +6,8%. «Nel reddito fisso le aspettative restano nell’intervallo tra zero e l’1% a causa della tendenza a lungo termine della compressione dei rendimenti». aggiunge Cilla. «Sul versante del credito societario, le attese sono più alte rispetto alla maggior parte degli altri segmenti, ma ancora piuttosto contenute». A 10 anni Vanguard vede per le obbligazioni area euro un rendimento nominale annuo atteso mediano pari a zero, per le obbligazioni globali (senza area euro) del -0,1% e per i titoli di Stato dei mercati emergenti del +0,6%. Valori che a 30 anni diventano +1,8%, +2,1% e +4,4%. Questi risultati si traducono in rendimenti modesti anche per i portafogli multi-asset, «dove una preferenza per le azioni Ue e britanniche dovrebbe premiare gli investitori nel medio-lungo termine», spiega Cilla. Vanguard colloca il rendimento annuo nominale mediano a dieci anni di un portafoglio bilanciato (40% obbligazioni e 60% azioni) al +2,2% sempre per gli investitori in euro, mentre il dato reale è al +0,4%. «Questi risultati ci ricordano l’importanza di utilizzare fondi o Etf di alta qualità e a basso costo e mantenere un approccio diversificato», conclude Cilla.
Un’altra strada – si diceva – è affidarsi ai dati storici utilizzati ad esempio dai simulatori della Covip, che per le analisi sui fondi pensione utilizzano il +4% nominale lordo per una linea a basso rischio (obbligazionaria) e il 6% nominale per una ad alto rischio (azionaria). Si basa sui numeri estrapolati dal passato anche l’analisi elaborata per MF-Milano Finanza da Smileconomy, che ha simulato la rendita netta ottenibile (al netto di costi, fiscalità e inflazione) da un fondo pensione con il versamento di 250 euro al mese per 10, 20, 30 o 40 anni nelle quattro linee ipotizzate con profilo di rischio crescente a seconda del contenuto azionario (e quindi con diverse attese di rendimento): 100% obbligazioni; 40% obbligazioni e 60% azioni; 20% obbligazioni e 80% azioni; e 100% azioni (si veda tabella). «E’ un’elaborazione che tiene conto del calcolo delle probabilità ed è basata sui dati degli ultimi 20 anni per un totale di 240 osservazioni mensili», spiega Andrea Carbone, ideatore di Smileconomy. «Nelle nostre simulazioni, a seconda del livello di probabilità, su un orizzonte di 20 anni il rendimento di una forma a basso rischio obbligazionaria va dal +4,1% al +4,7% nominale lordo annuo, mentre una ad alto rischio azionaria va dal 3,9% al 7,7%». Per chi investe per 10 anni la differenza tra la linea di investimento tutta in obbligazioni e quella tutta azionaria è limitata, nell’ordine dell’11%, ovvero 12 euro al mese nel caso di un contributo di 250 euro al mese: «La ragione sta nel breve orizzonte temporale e nei maggiori costi delle linee più azionarie», dice Carbone. Dai 20 anni in su invece il premio al rischio diventa più evidente: dal 24% di chi investe per 20 anni, ovvero 59 euro in più al mese, fino al 46%, pari a 322 euro al mese in più, dei giovani che restano investiti per 40 anni.
«Dati che suggeriscono, come sempre, la convenienza di aderire il prima possibile a una forma di previdenza integrativa», avverte Carbone, che accanto a questi dati ha elaborato l’indice di redditività, confrontando la somma delle rendite percepibili a vita media con la somma di quanto versato, al netto della fiscalità. «Si tratta di un indicatore utile per chi investe solo per 10 anni, che si ritrova a versare 250 al mese, per ottenere apparentemente una somma inferiore. L’indice, che considera la durata dei versamenti e dell’incasso della rendita a vita media, consente di evidenziare il fenomeno. A fronte di un euro investito in previdenza integrativa si va dagli 1,8 che possono essere percepiti a vita media per chi versa 10 anni in una linea completamente obbligazionaria fino ai 4,2 euro di chi investe per 40 anni in una linea azionaria», spiega Carbone. Per la linea obbligazionaria Smileconomy ha usato come riferimento l’indice Ftse Emu Government Bond Index, mentre per quella azionaria ha scelto il Msci World. «Si tratta di stime al 50% di probabilità, che meglio rappresentano la tendenza di lungo periodo», conclude Carbone. «C’è infatti il 50% di probabilità di ottenere un risultato superiore a quello stimato in tabella. Adottando scenari più prudenziali la linea al 100% azionaria perderebbe il primato a favore di linee un po’ più bilanciate, come quella composta dal 20% in obbligazioni e dall’80% in azioni». (riproduzione riservata)
In cantiere c’è anche un altro silenzio-assenso
di Carlo Giuro
La ripresa autunnale è densa di impegni per l’esecutivo, dalla riforma fiscale alla legge sulla concorrenza, collegate al complesso articolato del Piano Nazionale di Ripresa e Rsilienza e alla predisposizione della Legge di Bilancio in cui troveranno posto anche le nuove misure di riordino del sistema previdenziale. Nell’attesa della convocazione delle parti sociali il dibattito politico è tornato a infiammarsi sul tema più sensibile, ossia Quota 100, il meccanismo sperimentale voluto dalla Lega che per tre anni, fino a fine 2021, consente di lasciare il lavoro in anticipo. In vista della scadenza a fine anno si discute su come eventualmente sostituire Quota 100 con un nuovo canale che si ponga come alternativa al pensionamento di vecchiaia e al pensionamento anticipato. Si vuole così evitare che si crei uno scalone di 5 anni dal 2022 passando dalla possibilità fino al 31 dicembre di accedere alla quiescenza con Quota 100 (somma tra 62 anni di età e 38 di contributi) al solo pensionamento di vecchiaia a 67 anni e 20 di contributi (accanto al pensionamento anticipato con 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne). In discussione c’è anche un’ulteriore proroga della cosiddetta Opzione Donna (in scadenza anch’essa a fine anno), canale che permette alle lavoratrici di andare in pensione con un’anzianità contributiva di 35 anni e 58 anni di età (per le dipendenti) o 59 anni (per le autonome), con la pensione calcolata integralmente con il metodo contributivo. Si guarda anche al legame tra età pensionabile e turnover generazionale ricordando, come ha sottolineato il ministro dell’Economia Daniele Franco, che il vero fattore di equilibrio di un sistema previdenziale a ripartizione è il rilancio dell’occupazione.
Il tutto considerando i numerosi vincoli, da quello di bilancio alle considerazioni espresse negli anni dalla Commissione Ue e, ultimo in ordine di tempo, dell’Ocse che si è espressa sull’opportunità di non proseguire con Quota 100 e Opzione Donna. Ma la riforma delle pensioni da costruire non è solo Quota 100. Ci sono ulteriori punti di particolare rilevanza da affrontare. Delicato profilo è quello per esempio del legame tra età pensionabile e speranza di vita con la previsione degli adeguamenti automatici periodici (sterilizzati per la sola pensione anticipata fino al 2026), che i sindacati invitano a rivedere considerando che per effetto del Covid nel 2020 in Italia la speranza di vita si è ridotta di 1,2 anni a causa della pandemia. Ora si attesta a 82 anni (79,7 anni per gli uomini e 84,4 per le donne). Molto importante è poi la valutazione di una separazione contabile tra spesa previdenziale e spesa assistenziale, altro tema su cui è al lavoro una specifica commissione presso il ministero del Lavoro. Di particolare rilevanza è poi una valutazione di adeguatezza sui futuri trattamenti pensionistici dei giovani che rientrano nell’applicazione integrale del metodo di calcolo contributivo con l’ipotesi di introdurre una sorta di pensione minima di garanzia come nel retributivo.
Non va poi ovviamente dimenticata la necessità di rilanciare la previdenza complementare, che rappresenta sempre più per le giovani generazioni un fondamentale supporto. Possibile su questo fronte l’avvio di una nuova finestra di silenzio-assenso per l’adesione ai fondi (sul modello di quella del 2007) con una specifica campagna istituzionale. Delicato è poi il profilo fiscale, con l’auspicabile revisione del limite di deducibilità e il passaggio a un sistema, in ottica di armonizzazione fiscale, di tipo Eet (Esenzione in fase di contribuzione-Esenzione in fase di accumulo-Tassazione delle prestazioni) con l’azzeramento o almeno la riduzione della tassazione dei rendimenti al momento al 20% (negli altri Paesi europei, a eccezione di Danimarca e Svezia, si ha l’esenzione). Anche considerando l’introduzione del Pepp, il nuovo piano pensionistico individuale pan-europeo, si tratterebbe di una revisione quantomai opportuna. (riproduzione riservata)
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