LA NORMA SULLA RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI HA 20 ANNI, E I REATI AMBIENTALI SONO I PIÙ CONTESTATI
di Roberto Miliacca
Il decreto legislativo 231 sulla responsabilità amministrativa delle società e degli enti ha da poco compiuto 20 anni. È possibile fare un bilancio di questi primi anni di vita? Sicuramente molto è stato fatto per far crescere nelle aziende, attraverso l’attività di compliance svolta dai consulenti, una cultura della sicurezza. Lo ha dimostrato la pandemia Covid, che, nell’anno appena trascorso, ha messo a dura prova il funzionamento del Modello Organizzativo Gestionale (Mog), sottoposto allo stress dalle misure emergenziali di protezione della salute e sicurezza dei lavoratori. Il sistema pare aver retto allo stress-test, anche se, sicuramente, non c’è da abbassare la guardia. Come, per esempio, in materia ambientale. Tra i reati presupposto che hanno fatto scattare la responsabilità amministrativa delle società, infatti, in questi anni, nel 25% dei casi, ci sono stati quelli contro l’ambiente, e, a seguire, i procedimenti per morte o lesioni con violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro, e, da ultimo, le truffe ai danni dello Stato e dell’Ue. Come si spiega questo “primato” dei reati ambientali tra quelli presupposto che hanno fatto scattare una denuncia ex dlgs 231? Lo spiegano alcuni degli avvocati esperti di diritto ambientale che Affari Legali ha sentito questa settimana: la disomogeneità e la frammentarietà della normativa a tutela dell’ambiente, innanzitutto, ha generato e continua a generare, tra le aziende, delle aree grigie di scarsa conoscenza; e poi c’è l’indeterminatezza delle fattispecie che, salvo alcuni casi, viene rimessa all’interpretazione della magistratura, con tutto ciò che ne consegue anche per quanto riguarda le eventuali misure cautelari adottate (la vicenda Ilva, e i provvedimenti assunti, ne sono stati un esempio), che involgono il tema del contemperamento della tutela della salute pubblica e dei lavoratori con quello dell’esercizio dell’attività economica.

A 20 ANNI DALL’ENTRATA IN VIGORE DELLA NORMA SULLA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DEGLI ENTI
Decreto 231, in una causa su 4 il reato commesso è ambientale
di Federico Unnia
Cresce l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla tutela dell’ambiente e con essa cresce la sensibilità delle procure su questa tipologia di illeciti. In questo panorama si colloca il 20° anniversario dell’entrata in vigore della disciplina del decreto legislativo 231/2001 che ha previsto tra i reati presupposto anche quelli ambientali. Dati alla mano spicca con il 25% dei casi proprio la fattispecie dei reati ambientali, seguita dai procedimenti per morte o lesioni con violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro, poi la truffa ai danni dello stato e dell’Ue. Un dato che conferma la rilevanza del problema. Ma come è vissuto tutto questo dagli studi specializzati in penale ambientale?

«La principale criticità che incontriamo è proprio la normativa penale di riferimento, nel senso che ci si trova di fronte a un insieme di norme penali in bianco, che vengono integrate da norme e regolamenti, sovente di carattere tecnico e che nel tempo possono essere anche modificate. Inoltre, nel descrivere la condotta punibile si utilizzano termini generici il cui contenuto viene specificato e precisato dai giudici di merito o dalla Suprema Corte», dice Alicia Mejía Fritsch penalista, co-titolare dello studio del prof. Avv. Guido Calvi. «Per quanto attiene la prova circa la sussistenza o insussistenza del reato ambientale, questa si rivela assai difficile, trattandosi di una materia assai tecnica. In quasi tutti i casi è necessario ricorrere alla nomina di consulenti di parti o periti, i quali forniscono alle parti o al Giudice pareri di contenuto altamente scientifico sul fatto oggetto dell’imputazione; e, in non pochi casi, provvedono a ricostruire la materia sotto il profilo legislativo, amministrativo e/o autorizzativo di riferimento. Queste consulenze costituiscono la prova regina in quanto sovente indirizzano e condizionano la decisione del giudice di merito».

In merito al decreto 231/2001, l’avvocato Fritsch rileva che, «nell’ambito dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti, sono stati inseriti taluni reati ambientali, di matrice sia delittuosa sia contravvenzionale. Uno degli aspetti più sensibili è l’ignoranza all’interno delle aziende dei possibili rischi di natura sanzionatoria ed economica derivanti dalla violazione delle norme di tutela ambientale. Spesso questo è conseguenza della disomogeneità e frammentarietà delle norme poste a tutela dell’ambiente, nonché delle diverse interpretazioni normative che vengono date alle stesse norme dall’autorità sia amministrativa che giudiziaria. Inoltre, un aspetto delicato riguarda le misure adottate dal giudice penale che vanno a incidere direttamente sui beni dell’ente; mi riferisco alle ipotesi di sequestro ai fini della confisca e/o della confisca definitiva disposta in caso di condanna dell’imputato inserito nell’organigramma aziendale.

In merito alla condotta delle procure è necessario distinguere tra le iniziative che si fermano nella fase delle indagini con una richiesta di archiviazione e quelle che, celebrato il processo, si concludono con una sentenza assolutoria. Nel primo caso, il magistrato inquirente può rispondere per i danni cagionati qualora il procedimento sia stato avviato sulla base di una notizia di reato manifestamente inesistente o non dimostrabile, oppure nei casi in cui le indagini si siano protratte oltre una ragionevole durata temporale. Pensiamo a un’archiviazione per prescrizione del reato, oppure a una sentenza di non luogo a procedere per avvenuta prescrizione, ancora prima dello svolgimento di attività istruttoria. In questi casi, si è in presenza di un comportamento gravemente colposo e negligente del magistrato, che in molti casi può avere condizionato l’attività delle imprese nonché quella degli indagati. Tale comportamento diventa ancora più censurabile se, nell’ambito delle indagini, sono stati adottati provvedimenti cautelari reali poi annullati dal Tribunale del Riesame per la palese insussistenza di indizi di reità; oppure se le iniziative del pm sono state rese pubbliche dalla stampa nella zona in cui l’imprenditore si trova a operare».

Secondo Vincenzo Pellegrini, senior partner dello Studio legale BM&A, responsabile del dipartimento di diritto ambientale, «il mondo della gestione dei rifiuti costituisce ancora oggi la prima fonte di contenzioso penale. Va evidenziato che spesso le problematiche non nascono da una volontaria violazione delle norme, bensì dal contesto normativo non chiaro ed in continua evoluzione, che non agevola di certo l’operatore, tenuto conto della prevalenza di reati contravvenzionali formali che non richiedono il dolo e nemmeno la prova della colpa, che è presunta. Le norme spingono al riciclaggio dei rifiuti ossia al riuso, ma l’evoluzione confusionaria della casistica sul concetto di sottoprodotto e, più recentemente, su quello di end of waste, unita alle lacune normative che la giurisprudenza tende a colmare con principii generali di non facile applicazione pratica come quello di «precauzione», costituiscono una fonte costante di contestazioni. Il problema della corretta implementazione dal decreto 231 in materia ambientale presuppone un serio approfondimento preliminare dei meccanismi che possono condurre alla violazione delle norme penali in materia. Riscontro che molte aziende stanno percependo che i modelli che hanno strutturato in sede di «primo» adeguamento all’estensione della 231 ai reati ambientali, non sono sempre sorretti da una corretta analisi specialistica dei momenti sensibili del processo, in un contesto giuridico specialistico molto fluido e difficile.

Inoltre, per le società di minore dimensione, c’è un progressivo aumento della consapevolezza che i procedimenti interni di controllo per essere applicati efficacemente devono essere semplici, altrimenti non vengono applicati con il dovuto rigore nell’operatività aziendale e vanno a costituire, invece che l’esimente, la prova della colpevolezza della società. Le imputazioni di diritto ambientale spesso sono molto tecniche, sicché prima ancora dei magistrati è di fondamentale importanza l’approccio della polizia giudiziaria. Molti errori giudiziali nascono e sono coltivati lungo il processo per un approccio errato di carattere tecnico indotto dalle conclusioni tecniche della polizia giudiziaria. Per la giurisprudenza gli errori della polizia giudiziaria non sono sanzionabili, in termini di responsabilità, perché fatti propri dal procuratore che ha ritenuto di procedere, ma in materie tecniche come l’ambiente si dovrebbe temperare tale sillogismo e responsabilizzare maggiormente la polizia giudiziaria con riferimento alla portata delle conclusioni tecniche comunicate alla procura, non proprie del bagaglio culturale del giurista».

Per Maria Cristina Breida, responsabile del dipartimento di diritto ambientale di Legance-Avvocati Associati, «le tematiche che più frequentemente sono sottoposte alla nostra attenzione attengono a contestazioni relative all’attuazione delle prescrizioni contenute nelle autorizzazioni ambientali rilasciate alle imprese che esercitano attività industriali complesse e riguardano in generale tutti i possibili impatti dei processi produttivi sull’ambiente. Un altro ambito di estrema rilevanza è costituito dalle contestazioni in materia di inquinamento del suolo e delle acque sotterranee e di gestione dei rifiuti. Sono tematiche che coinvolgono una vastissima platea di soggetti ed hanno potenziali impatti ambientali molto significativi.

In questo contesto, tenuto conto della natura tecnica e specialistica della materia ambientale, il tema delle competenze, di strutture organizzative adeguate e di una coerente allocazione di compiti e responsabilità assume rilevanza centrale. L’implementazione di procedure specifiche a presidio dello svolgimento dell’attività in modo conforme alla normativa ambientale e l’elaborazione e l’attuazione di modelli organizzativi e di gestione che assicurino il conseguimento di tali obiettivi sono dunque elementi prioritari».

Teodora Marocco, partner del dipartimento di Diritto ambientale dello studio legale internazionale Gianni & Origoni osserva che «le problematiche principali sono riconnesse alla frammentarietà del quadro normativo e al fatto che molte fattispecie sono definite in maniera piuttosto vaga (si pensi al concetto di inquinamento di cui all’art. 452 bis), lasciando all’interprete, e alla giurisprudenza, di definirne il contenuto. Altre problematiche sono legate agli aspetti temporali essendo alcune situazioni di inquinamento risalenti nel tempo o non facilmente inquadrabili temporalmente con conseguente applicazione di possibili diverse norme incriminatrici con sanzioni sensibilmente differenti tra loro nonché agli aspetti del recupero e del ripristino cui è comunque subordinata l’applicazione della pena su richiesta.

Molti reati ambientali costituiscono reato presupposto. Le difficoltà principali riconnesse a questi reati rispetto ad altri parimenti previsti dal decreto 2001/231 consistono in parte nella frammentarietà dei reati ambientali e da una certa vaghezza delle fattispecie incriminatrici. Molti dei reati ambientali presupposto sono imputabili anche a titolo colposo. L’introduzione di reati colposi quali reati presupposto comporta una maggior preoccupazione e un maggior sforzo da parte delle imprese in termini di valutazione dei rischi ambientali e di sicurezza riconnessi alle attività svolte». In merito all’azione delle Procure semplice la sua soluzione: «Sarebbe utile ripensare i criteri della responsabilità civile dei magistrati anche se è un tema molto delicato. Tuttavia, prima ancora di parlare di eventuali responsabilità dei magistrati, ritengo che uno dei principali problemi sia dovuto al fatto che la materia ambientale sia alquanto complessa e tecnica e che richieda, per una compiuta ed esaustiva valutazione delle fattispecie e delle eventuali e connesse responsabilità, una notevole esperienza sul campo. Spesso le indagini relative a reati ambientali sono svolte nella loro interezza dagli ufficiali di polizia giudiziaria che, ancorché specializzati sotto il profilo tecnico, possono non avere sufficiente sensibilità giuridica nell’inquadrare le diverse questioni che possano presentarsi. In difetto di una specifica competenza in materia ambientale molto sovente la magistratura inquirente si affida unicamente alle valutazioni degli ufficiali di Polizia giudiziaria, con tutti i conseguenti limiti in punto di qualificazione giuridica, limiti che poi, necessariamente, emergono in fase dibattimentale. Penso sarebbe anzitutto opportuna l’istituzione di sezioni specializzate nell’ambito delle Procure».

Infine, secondo Piero Magri, partner del Dipartimento di diritto penale di RP Legal & Tax «i reati ambientali sono contestati a diversi livelli. Ci sono i controlli ordinari che gli organi accertatori svolgono sugli scarichi di acque o emissioni in atmosfera delle società. In questi casi, basta un piccolo superamento dei valori prescritti dalla normativa perché si apra un procedimento penale nel quale vengono coinvolti il più delle volte i legali rappresentanti delle pmi, che cercano di investire per migliorare i loro depuratori, ma spesso gli scarichi sono discontinui e i campionamenti istantanei e così ci vuole pochissimo per trovarsi sotto processo. A quel punto molto dipende dalla sensibilità del giudice, perché mi sono trovato con posizioni molto simili ma decise in modo diverso a seconda del giudice anche per la stessa azienda. I criteri della buona fede e dell’imprevedibilità (mancanza di colpa) non sono sempre applicati e ci sono Tribunali più rigorosi che adottano in modo erroneo una forma di responsabilità oggettiva. Poi ci sono i grandi processi per i disastri ambientali dove a volte interviene un profilo anche politico nelle decisioni. In questa fase la 231 viene contestata alle imprese per gli eventi più importanti e gravi dove l’obiettivo delle Procure è quello dei ristori per i danni ambientali. Del resto non tutti i reati ambientali sono presupposto per l’applicazione della 231. Il tema per la contestazione è quello del vantaggio per l’impresa procurato dal reato e solitamente viene inteso come un risparmio dei costi di investimento per migliorare la tutela dell’ambiente. Quindi se la società dimostra di aver investito e fatto il possibile per contenere l’inquinamento, la 231 non viene contestata». In tema ambientale si è assistito a casi di indagini poi sgonfiatesi. Che opinione si è fatto sul punto? «Certamente la questione è delicata perché il magistrato deve poter svolgere il suo compito serenamente, ma nessuno può andare sempre esente da responsabilità. Il problema non è di per sé l’indagine che si sgonfia, ma l’indagine che blocca i processi produttivi dell’azienda con sequestri che magari vengono revocati dopo anni. E purtroppo non ci sono ristori per le aziende» conclude Magri.

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