La riapertura dei tavoli tra le parti sociali riporta il focus sulla necessità di integrare l’assegno pubblico messo a dura prova
dalla crisi. Progetica segnala quanto bisogna versare per arricchirlo
di Paola Valentini
Dopo la fase acuta dell’emergenza del Covid la riapertura scuola è una priorità per l’Italia perché bisogna che i giovani studenti tornino in classe, quindi nelle condizioni di poter costruire il proprio futuro e di conseguenza quello del Paese. Una responsabilità non da poco: sacrificare le nuove generazioni significa mettere a repentaglio il futuro di tutti. Il rischio di lungo termine, ma da arginare fin da subito, è quello di non riuscire a preparare una intera classe di età alle sfide del mercato del lavoro con effetti devastanti sulla crescita economica già messa a dura prova dall’emergenza sanitaria.
Nonostante le riforme messe in atto negli ultimi anni in Italia, la disoccupazione resta alta e la pandemia ha aggravato la situazione. Motivo per cui le prossime manovre, sia in vista della Legge di Bilancio 2021, sia delle misure legate alle risorse messe a disposizione dall’Europa tramite il Recovery Fund, dovranno creare posti di lavoro.
Ma le manovre per rilanciare l’occupazione non possono prescindere da interventi sulla previdenza perché i due mondi sono strettamente legati e lo sono ancora di più in un sistema, come quello italiano, in cui i contributi versati da chi è in attività servono a pagare gli assegni del primo pilastro, quello pubblico.
Una crisi del mercato del lavoro limita quindi i mezzi per sostenere la previdenza. Senza dimenticare l’aumento registrato negli ultimi decenni della speranza di vita che, se da una parte è una buona notizia dal punto di vista sociale, dall’altra però fa sì che lo Stato debba pagare le pensioni per più anni e con l’elevato debito pubblico italiano si pone un problema di sostenibilità. Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che il montante contributivo, che si accumula durante la carriera e che poi produce l’assegno pensionistico mensile, è rivalutato in base al pil dell’Italia, ben si comprende che la priorità è la crescita economica per avere pensioni di primo pilastro più corpose. Su queste basi riprenderà nei prossimi giorni il confronto tra Governo e sindacati sul tema pensioni (si veda box).
La ripartenza dell’economia, dopo lo tsunami provocato dal Covid 19, richiederà quindi un attento check up su sostenibilità e adeguatezza del sistema previdenziale. Già prima dell’epidemia si era aperto il dibattito su un nuovo intervento di riordino per superare Quota 100 (il meccanismo che permette di andare in pensione a 62 anni con 38 di contributi ma con decurtazione dell’assegno) al termine del periodo di sperimentazione (2021). Nel nuovo confronto dovranno anche tenute in considerazione le recenti considerazioni espresse dalla Corte dei Conti nel Rapporto sulla finanza pubblica e dalla Banca d’Italia. La magistratura contabile, dopo un’analisi delle dinamiche e degli effetti di Quota 100, ha proposto le proprie considerazioni su come rivedere la flessibilità in uscita al termine della sperimentazione restituendo al settore una stabilità in grado di coniugare le diverse esigenze.
A partire del fatto che il problema oggi non è tanto uscire dal lavoro, quanto trovarne uno. Intanto la Banca d’Italia sottolinea che le tendenze demografiche non sono favorevoli; pur tenendo conto dell’apporto dell’immigrazione, la popolazione di età compresa tra 15 e 64 anni si ridurrà di oltre 3 milioni nei prossimi 15 anni.
Considerando gli impatti del pil sul montante contributivo in maturazione e l’evoluzione della piramide demografica, i fondi pensione hanno nel tempo conquistato una rilevanza prospettica sempre maggiore in termini di integrazione pensionistica e al contempo è di assoluta importanza il loro ruolo di investitori istituzionali per il contributo che possono fornire alla ripresa economica.
Ma la crisi sanitaria ha frenato le adesioni rendendo più fragile il futuro previdenziale delle nuove generazioni, quelle che più avrebbero bisogno di una integrazione dato che il sistema oggi in vigore, il contributivo, fa sì che la pensione di primo pilastro sia legata ai contributi e quindi meno si versa, a causa di interruzioni di carriera o di bassi stipendi, meno si otterrà.
Eppure correre ai ripari si può e il segreto, risorse permettendo, è iniziare il prima possibile. Come rivela un’analisi di Progetica che ha determinato quanto dovrebbero versare lavoratori dipendenti e autonomi dai 25 ai 55 anni per arrivare a percepire una pensione pari al 90% dello stipendio attuale.
Le età di pensionamento e il valore della pensione sono stimati in modo prudenziale, con bassa crescita dello stipendio reale (0%), del pil reale (0%) e della speranza di vita. Progetica ha inoltre tenuto conto del limite di 2,8 volte l’assegno sociale per poter accedere alla pensione anticipata contributiva, pertanto chi oggi ha un reddito basso (25enni e 35enni) non ne può beneficiare (va in pensione dopo, con la vecchiaia), ma i 45enni sì. Le ultime due colonne della tabella in pagina mostrano il versamento mensile, distinto tra linea di investimento a rischio basso e medio-alto, per raggiungere una copertura pari al 90% dello stipendio. Ad esempio un dipendente di 25 anni con un netto di mille euro dovrebbe investire ogni mese 38 euro e 22 euro, rispettivamente in un comparto a basso e medio, per centrare l’obiettivo del 90%.
Un conto ben più salato si prospetta per il dipendente di 45 anni: 549 e 437 euro. «Come sempre, maggiore è il tempo mancante, minore è il versamento necessario: il tempo, così come i mercati, soprattutto nel lungo periodo, sono sempre un prezioso alleato. Per tutti coloro che oggi hanno stabilità lavorativa e possono trovare spazio per un’integrazione pensionistica, pensare alla propria serenità futura rimane una priorità», spiega Andrea Carbone di Progetica.
Resta il fatto che il problema della costruzione della pensione di scorta è sentito ma poi alla prova dei fatti le azioni concrete spesso latitano, anche tra gli investitori più abituati all’uso di tecnologie digitali per allocare i propri risparmi e quindi più avvezzo agli investimenti. È quanto emerge da un sondaggio condotto da Moneyfarm dopo il lockdown per capire l’impatto della pandemia sul risparmio. Se per l’80% degli intervistati la volatilità sui mercati degli ultimi mesi ha rappresentato un’opportunità e non un rischio, tra le principali cause di timori c’è la pensione: ben il 46% del campione si è dichiarato molto preoccupato. Ma questa paura non si traduce in un atteggiamento attivo: il 38% degli intervistati dichiara di non essersi mai documentato su quando andrà in pensione con punte del 60% tra gli under 45.
Non sorprende, quindi, che anche le ipotesi sull’età pensionabile e quelle sul proprio assegno pensionistico siano in certi casi errate e sovrastimate: fra gli under 35, quasi il 18% non sa dare una stima precisa di quando andrà in pensione e il 32% sovrastima l’importo del proprio assegno.
Dalle interviste di Moneyfarm risulta anche che il 42% del campione è sprovvisto di una soluzione di previdenza integrativa, con punte del 60% tra i giovani (e fra chi ne ha una, ben il 60% non conosce i costi associati al proprio piano previdenziale).
Sebbene questi numeri siano migliori rispetto alla tendenza nazionale indicata dalla Covip (gli iscritti ai fondi pensione sono un terzo del totale dei lavoratori) fanno emergere comunque una certa indecisione di fronte alla scelta di soluzioni previdenziali, anche tra coloro che hanno maggiore dimestichezza con gli investimenti.
Le iscrizioni ai fondi pensione risentono ovviamente della crisi economica che ha prodotto una frenata della crescita delle adesioni nel secondo trimestre di quest’anno. In base ai dati della commissione di vigilanza sui fondi pensione presieduta da Mario Padula a fine di giugno 2020 il numero di posizioni aperte nelle forme pensionistiche complementari è di 9,22 milioni, con un aumento di 105 mila (+1,2%) nel semestre, ma più bassa rispetto al periodo pre-Covid e soprattutto nel secondo trimestre la crescita si è quasi azzerata.
Eliminando le duplicazioni di chi aderisce a più fondi pensione, il numero reale di iscritti scende a 8,34 milioni di individui. Invece il patrimonio complessivo, dopo essere sceso a 179 miliardi di euro a fine marzo, a giugno si è riportato a quota 185 miliardi, in linea con il valore raggiunto a fine 2019, grazie al recupero dei mercati finanziari che ha fatto risalire le performance dopo le pesanti perdite dei primi tre mesi, pur continuando in media a rimanere negativi rispetto al 2019.
Al netto dei costi di gestione e della fiscalità, nel semestre i fondi negoziali hanno perso l’1,1%; il 2,3 e il 6,5, rispettivamente, i fondi pensione aperti e i pip (piani individuali pensionistici) di ramo III, questi ultimi due caratterizzati in media da una maggiore esposizione azionaria. Valutando i rendimenti su orizzonti più propri del risparmio previdenziale, restano nel complesso soddisfacenti nonostante la recente crisi.
Nei dieci anni e sei mesi da inizio 2010 a fine giugno 2020, i rendimenti medi annui composti sono del 3,3% per i negoziali, del 3,4% per i fondi aperti, al 3% per i pip di ramo III e del 2,5% i prodotti di ramo I. Per entrambi i periodi, la rivalutazione del Tfr, tradizionale asticella con la quale si confrontano i rendimenti dei fondi pensione, è risultata inferiore e pari al 2% annuo. (riproduzione riservata)
Tra le ipotesi una nuova finestra di silenzio assenso
Anche la previdenza riparte nel mese di settembre. Nei prossimi giorni si riaprirà (l’8 e il 16) il confronto tra Governo e sindacati sul tema pensioni dopo la ripresa di luglio che aveva riaperto il dialogo a causa del lockdown. Da un lato l’obiettivo è condividere misure ritenute più urgenti da inserire nella prossima Legge di bilancio e al contempo si vuole lavorare per un disegno più ampio di riforma che dovrebbe entrare in vigore nel 2022, considerando che a fine 2021 terminerà la sperimentazione triennale di Quota 100, la misura che consente di anticipare il momento della pensione a chi ha 38 anni di contributi e 62 anni di età. L’orientamento che si profila è quello di ragionare sulla possibilità di prorogare l’Ape sociale (l‘assegno di accompagnamento alla pensione di vecchiaia per le categorie più deboli) e Opzione donna (la possibilità di andare in pensione per le lavoratrici che, a fine 2019, abbiano 58 anni di età, se dipendenti, e 59 anni, se autonome, e con almeno 35 anni di contributi, a condizione che optino per la liquidazione della pensione con le regole del sistema contributivo) che l’ultima Legge di Bilancio ha esteso fino al prossimo 31 dicembre. In maniera strutturale si vorrebbe affrontare il tema della pensione contributiva di garanzia per attenuare l’incidenza dell’elevato rischio previdenziale sulle giovani generazioni.
Il Governo intende accelerare poi i lavori delle Commissioni di studio sulla separazione tra previdenza e assistenza e sui lavori gravosi. Per quel che riguarda i fondi pensione la volontà comune è rilanciare il tema delle adesioni al secondo pilastro previdenziale prevedendo una nuova finestra di silenzio-assenso accompagnato da una specifica campagna informativa. Secondo i dati Covip sul primo semestre 2020 a fine giugno il numero di posizioni in essere presso i fondi pensione italiani è di 9,223 milioni; la crescita da fine 2019, pari a 105 mila unità (+1,2%), è inferiore rispetto ai periodi precedenti ed è risultata pressoché nulla nel secondo trimestre. Si intende poi ragionare poi sulla possibilità di un restyling della tassazione dei rendimenti. Nella gran parte degli altri Paesi europei lo schema adottato è del tipo Eet (Esenzione dei contributi, Esenzione dei rendimenti e Tassazione della prestazione pensionistica), in Italia il modello è Ett (sono esenti soltanto i contributi). Di importanza è poi il contributo che i fondi pensione possono fornire allo sviluppo. Proprio durante questo mese di settembre sarà necessario elaborare il piano di riforme da sottoporre a Bruxelles per richiedere le risorse del Next Generation Ue, lo strumento per la ripresa da 750 miliardi di euro. I piani sono valutati dalla Commissione Ue entro due mesi dalla presentazione conferendo un punteggio più alto in relazione alla coerenza con le raccomandazioni per Paese, nonché del rafforzamento del potenziale di crescita e della creazione di posti di lavoro. Il programma del Governo intende stimolare il rilancio della previdenza complementare sia in termini di un incremento degli iscritti che di un maggior sostegno all’economia reale e all’economia sostenibile, in coerenza con le linee guida del Next Generation Ue. (riproduzione riservata)
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