Tra gli obiettivi del blitz di Del Vecchio in Mediobanca, c’è la modifica dello statuto della merchant, che però garantisce l’autonomia degli amministratori dall’influenza di Unicredit. Senza scordarsi le mire sul controllo delle Generali
di Luca Gualtieri

L’arte della guerra, scriveva Sun Tzu, consiste nello sconfiggere il nemico senza doverlo affrontare. Non è ancora chiaro se i movimenti in corso attorno a Mediobanca preludano a una guerra ma, se questa scoppiasse, Jean Pierre Mustier potrebbe fare tesoro della massima cinese. Oggi in piazza Gae Aulenti c’è più di una ragione per mantenere un basso profilo: con un piano industriale da ultimare e una fusione da discutere, è comprensibile che il ceo non voglia restare coinvolto in baruffe dall’esito incerto. Tanto più che in questi anni ha preferito mostrarsi più attento al consenso sui mercati che alle logiche dei salotti e del capitalismo di relazione. Ecco perché, sebbene in palio ci sia il crocevia più ambito della finanza italiana, temporeggiare potrebbe rivelarsi la strategia più efficace. Una strategia che lascerebbe all’alleato l’onere di aprire le ostilità e di sostenere le prime battaglie.
Ma queste, per il momento, sono pure illazioni perché né Leonardo Del Vecchio, né il suo fidato manager Francesco Milleri hanno ancora scoperto le carte. Tutto tace dopo il blitz che martedì 17 ha portato Delfin al 6,94% di Mediobanca per un esborso di circa 600 milioni. La sensazione è che Milleri possa comprare ancora portando la partecipazione attorno al 10% in vista dell’assemblea del 28 ottobre. L’obiettivo? Sfruttare l’assise per mettere nel mirino lo statuto e, indirettamente, il vertice della merchant.
Nella city milanese circola da qualche giorno l’ipotesi che Del Vecchio possa chiedere la modifica degli articoli 15 e 24. Questi paragrafi disciplinano la carica dell’amministratore delegato, prevedendo che sia scelto tra chi è dirigente del gruppo da almeno tre anni. La misura arriva da lontano e finora è stata interpretata come una garanzia di indipendenza per il top management. Nella primavera del 2007 venne infatti inserita in statuto al momento del passaggio dalla governance tradizionale a quella duale: una mossa volta ad arginare l’influenza di Unicredit che proprio in quei mesi si stava fondendo con Capitalia. La misura appariva tanto più necessaria in quanto la libertà di manovra del management era già stata fortemente imbrigliata dalle modifiche apportate alla governance nel 2003 dopo la cacciata di Vincenzo Maranghi. Il rischio di un controllo di fatto su Mediobanca fu peraltro uno dei temi al centro dell’istruttoria antitrust su Unicredit -Capitalia e, nel provvedimento autorizzativo del settembre 2007, l’authority allora guidata da Antonio Catricalà fa espressamente riferimento al nuovo statuto della merchant. Esattamente un anno dopo, nelle discussioni per il ritorno alla governance tradizionale, la clausola fu oggetto di acceso confronto tra i vertici e venne alla fine confermata, sempre come garanzia di indipendenza. Così è accaduto anche nel terzo cambio di statuto, che ha varato il sistema monistico.
Certamente, se oggi Mediobanca fosse una public company come molti istituti italiani e internazionali, quella clausola suonerebbe anacronistica e gli azionisti avrebbero buon gioco a chiederne la cancellazioni. Gli intrecci del passato però sono duri a morire: con il suo 8,81% Unicredit rimane non solo il primo azionista ma anche il pivot dell’accordo di consultazione che dal gennaio scorso ha sostituito il vecchio sindacato di voto. Senza considerare che lo stesso Del Vecchio è socio di entrambe le banche, pacchetti a cui va poi aggiunto lo strategico 4,86% in Generali . Prima di mettere in discussione la governance di Mediobanca bisognerebbe insomma ridiscuterne gli assetti di controllo a partire dalla presenza di Unicredit nel capitale. Scelte su cui Mustier non ha ancora scoperto le carte. Da mesi il banchiere va semplicemente ripetendo che, alla scadenza del vecchio sindacato di voto, avrebbe insistito per un nuovo patto forte che blindasse la governance. Una proposta giustificata dalla volontà di mantenere le Generali «italiane, indipendenti e quotate in Italia». All’indomani del blitz di Del Vecchio molti si sono chiesti se il banchiere francese avrebbe tenuto fede a questi impegni, ma per il momento manca una risposta. Le circostanze del resto suggeriscono una linea attendista non fosse altro perché, con le azioni in carico a 10,2 euro contro un valore di borsa di 9,97, il momento propizio non è ancora arrivato.
È possibile che Mustier stia prendendo tempo anche per decifrare i movimenti sull’altro potenziale teatro di guerra, le Generali . Non occorre molta fantasia per capire che l’obiettivo del blitz di Del Vecchio sia il Leone di cui è azionista al 4,86% dopo i robusti acquisti dei mesi scorsi. Serrando la presa su Mediobanca , suggerisce qualcuno, il presidente esecutivo di EssilorLuxottica avrebbe mano libera per rimettere in discussione il vertice della compagnia e insistere su un’operazione straordinaria, magari sull’asse Trieste-Parigi. Un piano davvero molto ambizioso per il quale, oltre al benestare delle autorità di vigilanza, sarebbe necessario l’assenso di Francesco Gaetano Caltagirone , terzo socio di Generali al 5%. Per il momento il costruttore romano preferisce non esporsi così come resta sotto traccia la famiglia Benetton, che pure nei mesi scorsi aveva messo in vendita il suo 4% per poi ritirarla dal mercato.

Vero è che a Trieste, a cavallo dell’estate, non sono mancate le tensioni. Secondo quanto risulta a MF-Milano Finanza, a luglio il presidente Gabriele Galateri avrebbe caldeggiato l’idea di cedere a Del Vecchio la quota che la compagnia detiene nello Ieo-Monzino. Un’ipotesi che, sebbene abortita, avrebbe alimentato attriti con gli altri grandi azionisti del gruppo ospedaliero.
Nel frattempo il management di Mediobanca sta dando gli ultimi ritocchi al piano industriale che si muoverà quasi certamente in continuità con la strategia dell’ultimo triennio. Una strategia che, secondo gli analisti, è riuscita soprattutto a mantenere la promessa di sviluppare le attività a più alta intensità commissionale e basso assorbimento di capitale. (riproduzione riservata)

Stavolta si può davvero archiviare l’era Cuccia
di Angelo Di Mattia
In questi giorni Mediobanca è nuovamente al centro dell’interesse delle cronache per l’acquisizione di circa il 7% da parte della Delfin di Leonardo Del Vecchio: se ne scrutano le possibili finalità e ripercussioni; ci si interroga sulle proiezioni di tale acquisto verso le Generali, di cui Del Vecchio possiede poco meno del 5%, e così si ripropongono interrogativi sul futuro di questo polo che parte da Unicredit (di cui Del Vecchio detiene il 2%) e aggancia Mediobanca e il Leone. Un polo di rilievo per il mondo economico-finanziario non solo italiano. Fu sotto il governatorato Baffi, con la collaborazione dell’allora vicedirettore generale Mario Sarcinelli, che fu avviata la prima ispezione della Vigilanza su Piazzetta Cuccia a oltre 30 anni dalla sua costituzione. Guardando retrospettivamente si può dire che Mediobanca ha trovato nelle normative che l’hanno interessata condizioni di particolare forza, ma anche passaggi non facili. Nasce con una legge speciale poco dopo la Liberazione: il Dlcps 370/46. Pur essendo un istituto di credito a medio e lungo termine, Mediobanca ottiene, con una tecnica legislativa assai abile che prevede il suo assoggettamento anche alle norme che regolano le aziende di credito a breve, di potere avere le facoltà anche di queste ultime banche, cosa che le darà una posizione sostanzialmente monopolistica nel settore. Da qui trae origine la tricefalia della banca: istituto di credito speciale, merchant bank e holding di partecipazione. Il suo percorso incrocia le leggi di agevolazione creditizia per diversi
settori economici, poi quelle sulla ristrutturazione industriale, alcune delle quali hanno un marchio dell’istituto (il famoso «comma Montedison» della legge per la riconversione industriale) dovuto alla sua unicità, all’essere a poco a poco diventato la stanza di compensazione del gracilissimo capitalismo italiano, ma anche alla genialità del suo demiurgo, Enrico Cuccia. I tentativi di introdurre, negli anni 80, una disciplina per le merchant bank aprendo così il settore alla concorrenza vengono bloccati: la longa manus dell’istituto è chiara. Ma poi il recepimento della seconda Direttiva comunitaria in materia di credito nonché la riforma della banca pubblica rendono inevitabile una rivisitazione normativa del settore prevedendo la possibilità di dare vita alla banca universale, che può svolgere un complesso di funzioni le quali la mettono in condizione di competere ad armi pari con Mediobanca. Ecco allora che a poco a poco inizia una discesa di quest’ultima dall’empireo nella quale si era insediata per il suo peculiare status. La storia dimostra che la competizione assegna spesso il «favor» alle banche concorrenti. Intanto i governi degli anni 80 iniziano a prospettare ampie operazioni di privatizzazione nelle quali il ruolo di Mediobanca non ha più la centralità delle epoche precedenti. La successiva scomparsa di Cuccia delinea un futuro non facile. Le strategie che Mediobanca intraprenderà, fino alla proiezione nel credito al consumo, segnalano una sorta di passaggio d’epoca e accrescono gli interrogativi sul ruolo storicamente svolto, alcune osservazioni facendosi strada nel ritenere che la «stanza di compensazione», «il salotto buono», le sofisticate operazioni
di ingegneria istituzionale o di cosmesi societarie, i patti di sindacato, le costruzioni piramidali per far mantenere il controllo a imprese insediate in settori fondamentali, tutto sommato abbiano mantenuto in vita assetti proprietari che diversamente si sarebbero liquefatti. Di qui l’interrogativo sulla proficuità e sulla corrispondenza agli interessi generali di questa versione del capitalismo assistito. Centrale è rimasto però il rapporto di Mediobanca con le Generali, che Cuccia riteneva cruciale, la pupilla dei suoi occhi, la fonte fondamentale dei ritorni, non solo finanziari, per il suo istituto. Quanto questo rapporto incida sul non sfruttamento completo di tutte le potenzialità del Leone è da valutare. In ogni caso, pure in questo versante una normativa di carattere internazionale aiuta non poco Mediobanca: il «Compromesso Danese» in tema di regolamentazione dei rapporti tra banche e assicurazioni fa sì che non sia più così cogente la discesa nelle Generali sotto il 10% (dal 13 attuale). In questo quadro l’iniziativa di Del Vecchio, se fosse maturata sulla base di un solido progetto con una visione di lungo periodo riguardante anche il rapporto con Generali, potrebbe corrispondere non solo agli interessi dell’azienda creditizia guidata da Alberto Nagel ma anche a quelli generali, che non si può negare questi istituti richiamano. Starebbe in ciò la vera archiviazione dell’era Cuccia. Potrebbe essere salutare la messa in moto di innovazioni societarie, strategiche e funzionali, a cominciare dalla governance. Così come sarebbe l’opposto se si trattasse di un’iniziativa senza alcuna finalità rinnovatrice. A questo punto c’è solo da attendere, cercando di cogliere quali potranno essere i punti di approdo di una vicenda forse straordinaria. (riproduzione riservata)

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