Il rallentamento economico dell’Italia peserà sull’assegno pubblico. Progetica stima che, con un pil azzerato rispetto al +1,5% applicato dall’Inps nella busta arancione, la rendita cala anche del 30%
di Roberta Castellarin e Paola Valentini
Con la manovra 2020, primo banco di prova per il governo Conte bis, potrebbe essere ritoccata la normativa di Quota 100, che ha permesso ai lavoratori di ritirarsi in anticipo rispetto ai requisiti della legge Fornero. Ed anche è probabile l’introduzione della pensione di garanzia per le giovani generazioni. Quest’ultima, a differenza di quota 100 che interviene sul fronte dell’età, è invece una misura a sostegno dell’importo della rendita pubblica che appare sempre più magra non soltanto per via di carriere discontinue e precarie, ma anche per la frenata dell’economia. Infatti nel metodo di calcolo della pensione contributivo che ormai è in vigore per tutti dalla riforma Fornero del 2012 (per chi lo aveva, il retributivo è utilizzato fino al 2011), il montante finale è la somma degli importi versati lungo tutta la vita lavorativa, quindi un percorso precario come quello che devono affrontare le nuove generazioni, contrassegnato da periodi di buchi dovuti a disoccupazione o da ingresso ritardato nel mondo del lavoro, ha l’effetto diretto di ridurre l’importo dell’assegno finale. Non solo. Il contributivo prevede che ogni anno il montante venga rivalutato sulla base del tasso annuo di capitalizzazione risultante dalla variazione media quinquennale del prodotto interno lordo, calcolata dall’Istat con riferimento ai cinque anni precedenti.
Ecco perché gli ultimi anni di decelerazione dell’Italia pesano come un macigno sulle pensioni, soprattutto di quelle dei giovani. Anche per questo, il rilancio dell’economia italiana sarà una delle sfide del nuovo governo a trazione giallorossa, che si trova a prendere le redini di un Paese in stagnazione come conferma la stima sul pil del secondo trimestre diffusa dall’Istat. Nel periodo aprile-giugno il pil, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è rimasto invariato rispetto al trimestre precedente ed è diminuito dello 0,1% nei confronti del secondo trimestre del 2018. La variazione acquisita per il 2019 (ovvero quella che si otterrebbe se i restanti trimestri dell’anno, quindi anche il terzo e il quarto, si chiudessero con una variazione nulla) è pari a zero. Proprio per capire l’impatto della dinamica del pil sulle pensioni, la società di consulenza indipendente Progetica ha elaborato alcune simulazioni relative a lavoratori dipendenti e autonomi, di 30, 40, 50 e 60 anni (tabella in pagina). È stato stimato l’importo della pensione attesa sulla base di tre differenti ipotesi di pil: a zero, con una crescita dello 0,5% e dell’1,5%. Quest’ultimo è stato preso in considerazione perché è quello alla base della busta arancione dell’Inps, il documento che presenta la stima del primo assegno pubblico che il lavoratore iscritto potrebbe ricevere sulla base degli importi versati, oltre all’età della pensione. Dagli scenari emerge che «la variabilità è tanta, sia in euro che in percentuale, soprattutto per i più giovani: sicuramente lo scenario con pil all’1,5%, quello usato dalla busta arancione dell’Inps, porta delle stime più positive sull’importo della pensione», afferma Andrea Carbone di Progetica. Ad esempio con un pil all’1,5% un trentenne di oggi, dipendente, con un reddito netto mensile di 1.500 euro otterrebbe alla pensione (66 anni e 10 mesi) un assegno di 1.418 euro, mentre con un pil a zero 1.098 euro, una differenza del 29%. Un trentenne autonomo con lo stesso stipendio mensile, quando scatteranno i requisiti per ritirarsi dal lavoro (sempre 66 anni e 10 mesi) riceverebbe 904 euro stimando un pil a zero, invece con un pil all’1,5% l’assegno salirebbe a 1.178 euro, il 30% in più. Tutte le elaborazioni ipotizzano continuità lavorativa dai 25 anni fino all’età della pensione, con carriere di 40 anni e oltre: in questi casi il sistema contributivo restituirebbe pensioni piuttosto elevate. «La vera sfida per i più giovani sarà avere una carriera continua, altrimenti le pensioni saranno destinate a scendere», sottolinea Carbone.
Nella seconda tabella è illustrato l’andamento storico della media quinquennale del pil reale. «Finalmente sono uscite dalla media le recessioni 2008-2009 e 2013-2014, e siamo tornati in terreno positivo, in termini reali, dopo praticamente un decennio. Ricordo che quello nel grafico è il pil reale, al netto dell’inflazione. Fisicamente l’Inps usa il pil nominale, che è sempre superiore a 1, per rivalutare i nostri montanti contributivi», dice Carbone. Dunque pianificare la propria pensione vuol dire anche gestire il rischio pil: «se il Paese va meno bene di quanto potrebbe, le pensioni future saranno più basse. Un altro buon motivo per iniziare da subito a pianificare per la propria stabilità economica futura», conclude Carbone. Di fronte ad assegni previsti in riduzione il nuovo governo dovrebbe, come invocato da più parti, rilanciare le adesioni ai fondi pensione che restano comunque ancora basse. Al momento gli iscritti sono poco più di 8,9 milioni, in base ai dati Covip al 30 giugno scorso, pochi in confronto con la platea di lavoratori italiani che supera i 22 milioni. E per arrivare a una copertura completa o quasi del numero di dipendenti o autonomi dotati di una pensione di scorta la strada è ancora lunga. Per questo il governo, nell’ambito del possibile provvedimento della pensione di garanzia per i giovani, pensa di intervenire creando un fondo integrativo pubblico. Un comparto del genere entrerebbe in concorrenza con i fondi pensione aperti, negoziali e con i piani individuali pensionistici (pip) che sono finora gli unici prodotti di previdenza complementare doc perché solo queste tre categoria rientrano nell’ambito della disciplina di settore che prevede particolari condizioni di favore per gli iscritti come le agevolazioni fiscali (ad esempio l’esenzione dell’imposta di bollo dello 0,2%, tassazione agevolata dei rendimenti al 20% invece dell’aliquota standard sulle rendite finanziarie del 26%) o la possibilità di avere anticipazioni del capitale accumulato per varie esigenze tra cui acquisto della prima casa, spese sanitarie o altre generiche necessità (30%).
Un’altra leva per dare più solidità al sistema previdenziale italiano è il rilancio dell’occupazione dato che nel modello italiano a capitalizzazione i contributi di chi lavora vanno a finanziare le pensioni di chi nello stesso momento si è ritirato dall’attività. Occupazione giovanile, ma negli ultimi tempi anche degli over 50, in crisi, sono due fattori che determinano un taglio rilevante della base che dovrebbe fornire le risorse a pagare la rendita a una platea di pensionati che nel frattempo si va sempre più ingrossando grazie all’aumento della speranza di vita. Che se da una parte è una buona notizia dall’altra però sovraccarica sempre di più le casse dello Stato anche considerando l’elevato debito pubblico dell’Italia rispetto al pil. Per il nuovo governo quindi la strada per tutelare maggiormente i lavoratori senza, nel contempo, aumentare ulteriormente il debito, resta stretta. Di qui la necessità per ognuno di provvedere per quanto prima possibile alla costruzione di un’integrazione all’assegno pubblico.
Un’altra novità introdotta dal precedente governo è stata quella del riscatto della laurea agevolato e da questo punto di vista non sembrano esserci nuovi interventi all’orizzonte. Per poter scegliere il riscatto agevolato servono due requisiti: il lavoratore deve avere almeno un contributo versato nella gestione separata Inps dove intende riscattare e il corso di studi deve collocarsi nei periodi di competenza del metodo contributivo, operativo dall’inizio del 1996. Dunque chi ha studiato dopo il 1995 potrà chiedere, solo per gli anni di corso dal 1996, di pagare a scelta il proprio riscatto alla cifra fissa di 5.240 euro per ogni anno (importo valido fino a fine 2019), rispetto a cifre che possono essere molto più consistenti. Tuttavia questa strada non conviene a tutti. Se per chi ha un reddito imponibile sopra la media può essere un’ottima strada perché questa cifra, rateizzabile in un massimo di 10 anni, senza interessi, è infatti un onere fiscalmente deducibile che, specie se rateizzato, consente di massimizzare il risparmio fiscale con una spesa effettiva abbattuta fino al 47% (in particolare per chi ha redditi superiori a 75 mila euro annui, considerando anche il risparmio sulle addizionali regionali e comunali), mentre chi invece ha un reddito più basso deve fare i conti con attenzione. Soprattutto per chi ha contributi solo dopo il 1995, l’analisi costi/ benefici va fatta con grande cautela perché nella maggioranza dei casi per i redditi più bassi non conviene. (riproduzione riservata)
Ragioneria Generale, i fondi pensione sono cruciali
di Carlo Giuro Il recente Rapporto della Ragioneria Generale dello Stato sull’andamento della spesa pensionistica nel medio-lungo periodo analizza tra i diversi profili anche il contributo della previdenza complementare nell’integrare il tasso di sostituzione (ovvero la quota di stipendio che si avrà come primo assegno pensionistico pubblico). I fondi pensione, in considerazione della tendenziale riduzione dei futuri trattamenti pensionistici erogati dal sistema obbligatorio per effetto dell’integrale applicazione del metodo di calcolo contributivo ed usufruendo anche dei significativi benefici fiscali previsti dall’ordinamento italiano (deducibilità dei contributi entro il limite annuo di 5.164,57 euro, tassazione dei rendimenti al 20%, imposta sostitutiva delle prestazioni finali al 15% con riduzione dello 0,30% per ogni anno di durata superiore al quindicesimo fino ad un minimo del 9%) divengono infatti sempre di più un fondamentale sostegno, specie per le giovani generazioni, per mantenere un tenore di vita dignitoso nella terza età. Va anche ricordato che, per calmierare i possibili effetti riduttivi sul calcolo del contributivo prodotti dal ritardato ingresso nel mondo del lavoro e dalla flessibilità dell’occupazione, si prevede nel programma del nuovo Governo la possibilità di introdurre una pensione minima di garanzia. Così come auspicato dalle organizzazioni sindacali andrebbe però condotta una riflessione anche sul rapporto tra montante contributivo ed età pensionabile ricordando come la stessa possibilità di accesso al pensionamento si relaziona con il quantum versato, dal momento che il pensionamento per vecchiaia richiede non solo un requisito contributivo di 20 anni ed anagrafico (oggi 67 anni) ma anche la condizione rappresentata da un importo della pensione superiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale. In caso contrario si può accedere al trattamento di vecchiaia al compimento di 70 anni di età, aggiornato sulla base degli adeguamenti alla speranza di vita, con almeno cinque anni di contribuzione effettiva (cioè obbligatoria, volontaria e da riscatto) con esclusione dei contributi figurativi, a prescindere dall’importo della pensione. Per la pensione anticipata è necessario avere 64 anni e una anzianità contributiva di 20 anni; l’ammontare della prima rata della pensione deve essere superiore a 2,8 l’importo mensile dell’assegno sociale. Tornando alle stime della Ragioneria generale dello Stato, nel 2070, il tasso di sostituzione lordo passa con la previdenza complementare da 60,8% a 68,2%, per i dipendenti privati, e da 49,2% a 57,4%, per gli autonomi, con un incremento, rispettivamente, di 7,4 punti percentuali e di 8,2 punti percentuali. Confrontando i valori del 2010 e del 2070 si evidenzia un decremento di 5,5 punti percentuali, per i dipendenti privati, e di 14,8 punti percentuali, per gli autonomi. Con la sola previdenza obbligatoria, le riduzioni sarebbero state, rispettivamente, di 12,9 e 23,1 punti percentuali. Un effetto analogo si produce sui tassi di sostituzione netti. Nel 2070, i dipendenti privati raggiungono un valore pari al 80,7%, rispetto al 70,5% della sola previdenza obbligatoria. Per i lavoratori autonomi, i valori corrispondenti sono 87,9 e 70,7%. Confermata l’utilità dei fondi pensione, qual è il quadro di riferimento della previdenza complementare in Italia? Attingendo ai dati Covip al 30 giugno scorso, il numero di posizioni in essere presso le forme pensionistiche complementari è di 8,922 milioni; al netto delle uscite, la crescita dall’inizio dell’anno è stata di 182 mila unità (+2,1%). A tale numero di posizioni, che include anche quelle relative a coloro che aderiscono contemporaneamente a più forme, corrisponde un totale degli iscritti che può essere stimato in circa 8,12 milioni. Nei fondi negoziali si sono registrate 75 mila iscrizioni in più (+2,5%), portando il totale alla fine del semestre a 3,077 milioni. Nelle forme pensionistiche di mercato offerte da intermediari finanziari, i fondi aperti totalizzano 1,503 milioni di posizioni, crescendo di 41 mila unità (+2,8%) rispetto alla fine dell’anno precedente. Nei pip (piani individuali pensionistici) il totale degli iscritti è di 3,341 milioni; la crescita nel semestre è stata di 66 mila unità (+2%). Il patrimonio ammonta, alla fine di giugno, a 174,7 miliardi di euro; il dato non tiene conto delle variazioni nel periodo dei fondi pensione preesistenti e dei pip di vecchia data (quelli nati prima della riforma del 2005). Gli asset dei negoziali, 53,9 miliardi, segnano il +7%. Le risorse accumulate presso i fondi aperti corrispondono a 21,4 miliardi, mentre i pip nuovi totalizzano 33 miliardi; nel semestre l’aumento è stato, rispettivamente, del 9,1% e del 7,5%. Andando ai rendimenti, dalle statistiche dell’associazione di vigilanza della previdenza complementare presieduta da Mario Padula emerge che nel periodo da inizio 2009 a fine dicembre 2018 (dieci anni), le performance sono risultate pari al 3,7% per i negoziali, al 4,1% per i fondi aperti, al 4% per i pip di ramo III (unit linked) e al 2,7% per le gestioni separate di ramo I legate sempre ai pip. Nello stesso periodo, la rivalutazione media annua composta del trattamento di fine rapporto (tfr) che resta in azienda è stata pari al 2%.(riproduzione riservata)
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