Le fanno causa anche i grandi fondi di investimento
di Franco Oppedisano IlSussidiario.net
Più che a un costruttore di automobili, il gruppo Volkswagen, da un anno a questa parte, assomiglia a un bancomat. Un enorme, smisurato bancomat. Migliaia di persone e di istituzioni, con altrettanti stuoli di avvocati al seguito, sono davanti, metaforicamente, ai cancelli di Wolfsburg, in attesa di prelevare. L’accordo americano, che ha visto i tedeschi sborsare quasi 15 miliardi di euro per tacitare possessori delle auto con le centraline taroccate, Dipartimento di Giustizia Usa ed Ente di protezione ambientale (Epa), ha aperto le cateratte. Gli appetiti sono stati alimentati dall’accordo che il gruppo tedesco ha raggiunto per risarcire i suoi 652 concessionari negli Usa che hanno portato a casa, secondo indiscrezioni perché la cifra non è stata resa pubblica, 1,2 miliardi di dollari, quasi un paio di milioni di dollari a testa. Centinaia di istituzioni private e pubbliche, migliaia di associazioni varie, e centinaia di migliaia di clienti hanno consultato i propri legali per capire se si poteva mungere qualcosa.
Anche i padroni chiedono soldi – L’ultimo a chiedere soldi in ordine di apparizione è il più grande fondo di investimento del mondo, Blackrock, che ha in portafoglio il 3,35% di Volkswagen e ha deciso di fare causa. Prima di lui aveva scelto la stessa strada il fondo sovrano norvegese (1,64% del capitale) e secondo il Financial Times il costruttore tedesco è coinvolto anche in altre richieste da parte di investitori che hanno depositato circa 380 cause nel distretto di Braunschweig, a cui fa capo Wolfsburg, e Volkswagen potrebbe dover rispondere a richieste per un importo complessivo variabile tra i 5 e gli 8 miliardi di euro.
I dirigenti in galera – Se i tuoi azionisti ti fanno causa, di solito, hai toccato il fondo, ma in realtà in Corea del Sud va anche peggio. Il ministero dell’Ambiente locale ha prima cancellato le certificazioni della metà delle auto vendute dalla VW dopo il 2007 e poi, semplicemente, ha revocato l’omologazione di quasi tutte le vetture del Gruppo, accusandolo di aver falsificato i documenti relativi ai livelli di emissioni. Per riottenerle ci vorrà molto tempo e, nel frattempo, auto WV non se ne vendono più. Per i dirigenti locali non è neanche il problema principale perché essi sono soprattutto impegnati a non finire in galera, visto che un loro collega è già stato raggiunto da un mandato d’arresto per il dieselgate. Sì, perché stanno arrivando al pettine anche le azioni di giustizia penale. In America è comparso anche il primo pentito collaboratore di giustizia: un ingegnere ex dipendente Volkswagen, membro di un gruppo di dirigenti legati da un patto di segretezza, che ha ammesso che il costruttore tedesco avrebbe cominciato a sviluppare il software incriminato nel 2006 e sarebbe stato costretto a utilizzarlo perché i limiti delle emissioni imposti oltreoceano erano impossibili da rispettare, almeno a costi accettabili. Piove sul bagnato.
Miliardi come noccioline- Volkswagen sta cercando di far cadere ogni imputazione penale, ma se l’impresa dovesse riuscire costerebbe una follia perché non c’è paese al mondo, in cui le Procure, i ministeri, le agenzie ambientali, le associazioni dei consumatori non stiano lavorando o non si apprestino a farlo, con rinnovato vigore, se dovesse esserci il profumo dei soldi e di accordi extragiudiziari favorevoli.Qualcuno ha cercato di immaginare quanto costerà alla fine il trucco del software che limita le emissioni al gigante tedesco. Le stime più ottimistiche parlano di 25 miliardi, quelle più pessimistiche di 50.
Anche l’Europa si mette in coda – Vera Jourova, commissaria alla Giustizia e alla Tutela dei Consumatori, non ha sottolineato l’assurdità di un rimborso miliardario negli Stati Uniti, ma ha dichiarato di essere a disposizione per coordinare tutte le azioni che i singoli stati stanno facendo per eliminare le disparità con gli Usa, creando un fronte comune. La commissaria ha incontrato tutte le associazioni che l’hanno contattata. Si è parlato di risarcimenti e, a spanne, se per gli Usa sono stati spesi 35 mila euro per ogni auto taroccata, in Europa, dove ne sono state vendute 8,5 milioni, si parla di quasi 300 miliardi, molto di più di quanto valga l’azienda. L’unica soluzione sarebbe la bancarotta. Per una delle aziende tra le più grandi al mondo, con oltre cento impianti produttivi in mezzo mondo e centinaia di migliaia di dipendenti, un migliaio dei quali in Italia.
Vendite in caduta libera per il dieselgate – Se le batoste economiche sono importanti perché pregiudicano i bilanci, non meno significative sono le conseguenze commerciali del dieselgate. Le vendite del colosso di Wolfsburg negli Usa sono crollate del 15% e in Europa, in un mercato che spinge al rialzo le immatricolazioni, sono quasi ferme al livello dello scorso anno, con il marchio Volkswagen, il pane e burro del Gruppo tedesco, addirittura in calo. Se il gruppo tedesco non fosse fortissimo sul fronte delle immatricolazioni e delle percentuali di guadagno, con tre joint venture con altrettante aziende locali, saremmo a un passo dal disastro.
La strategia relazionale di Müller. Nel 2015 Martin Winterkorn, il maggior responsabile del dieselgate, aveva annunciato di voler di immettere sul mercato oltre cinquanta nuovi modelli in dodici mesi, di cui solo un paio elettrici. Quest’anno l’attuale ceo di Volkswagen Matthias Müller non ha detto una parola sui modelli tradizionali, mentre un portavoce della casa automobilistica tedesca, negli stessi giorni, ha annunciato l’addio al progetto Taigun, il piccolo crossover esibito per la prima volta nel 2012 in Brasile come concept. Un’occasione persa per introdursi in un segmento che sta facendo le fortune di molti concorrenti. Müller ha invece promesso di sfornare una trentina di veicoli elettrici nei prossimi otto anni.
Il sogno elettrico – Questa strategia somiglia più a un libro dei sogni che a un piano industriale. Müller non può non sapere che il mercato di questo tipo di auto ancora non esiste. E non può non sapere che la maggior parte dei costruttori dichiara che produrre e vendere auto elettriche costa più di quanto i clienti sono disposti a spendere.
Fonte: