di Marcello Bussi
Il giorno della verità è arrivato. Questa sera il Comitato di politica monetaria della Federal Reserve, il Fomc, annuncerà se ha deciso di mettere fine o no alla politica dei tassi zero iniziata nel dicembre 2008 per rispondere alla crisi finanziaria globale innescata dalla bancarotta di Lehman Brothers del 15 settembre dello stesso anno.
Impossibile fare delle previsioni, è come scegliere fra testa o croce. Il Fomc è diviso al suo interno. Il dato di ieri sull’inflazione Usa ha sorpreso tutti, portando acqua al mulino di chi è a favore del rinvio dell’aumento del costo del denaro. Ad agosto, infatti, l’indice ha registrato un -0,1% rispetto a luglio, mentre è salito dello 0,2% su base annua. Siamo quindi lontanissimi dall’obiettivo della Fed di un’inflazione al 2%. Se a questo si aggiunge che Goldman Sachs non esclude una caduta del prezzo del petrolio Wti a 20 dollari al barile, è chiaro che se c’è da temere qualcosa, questa non è certo l’inflazione bensì la deflazione. I rendimenti dei titoli di Stato Usa si sono però mantenuti alti dopo l’accelerazione della vigilia. Quello decennale è al 2,28% e quello biennale allo 0,81%. «Gli operatori hanno probabilmente iniziato a scontare un possibile rialzo dei tassi da parte della Fed, sebbene il consenso degli analisti rimanga diviso a metà», hanno osservato gli analisti di Mps Capital Services.
Un possibile aumento del costo del denaro «rimane una possibilità concreta», hanno ribadito gli strategist di IG, puntualizzando che la presidentessa Janet Yellen nel corso della conferenza stampa di questa sera alle 20:30 ora italiana potrebbe sminuire i timori sulla Cina sostenendo che i dati di Pechino, al momento, non modificano l’outlook sulla ripresa Usa e che le misure espansive del governo e della Banca del popolo cinese dovrebbero prevenire un forte rallentamento della seconda economia del mondo.
Sul fronte inflazione, invece, «la Fed potrebbe sostenere che i prezzi così bassi possono stimolare ulteriormente i consumi, mantenendo invariate le prospettive di medio-lungo periodo. Yellen, poi, ha a disposizione la conferenza stampa per poter spiegare le ragioni di tale decisione e potrebbe sottolineare che per ulteriori ritocchi dei tassi sarà necessario un miglioramento dell’outlook globale». La cosa paradossale è che la borsa oggi potrebbe reagire positivamente sia a un rialzo che a un suo rinvio. Nel caso della seconda ipotesi i motivi sono evidenti, visto che con i tassi a zero l’unico investimento possibile è quello in borsa.
Ma anche un rialzo dovrebbe essere accolto positivamente, per due o tre sedute. Un rialzo darebbe infatti il messaggio che l’economia Usa può finalmente stare in piedi sulle proprie gambe. Inoltre, come ha più volte anticipato la Yellen, questa prima mossa sarebbe seguita da una pausa per vedere come evolve la situazione. Insomma, non sarebbe l’avvio di una vera stretta. Il problema è che un rialzo avrebbe sicuramente un impatto devastante su molti Paesi emergenti indebitati in dollari, che già stanno attraversando una fase negativa. Le svalutazioni competitive di quei Paesi potrebbero esportare deflazione negli Stati Uniti. E soprattutto in Eurolandia.
Ecco perché ieri il vicepresidente della Bce, Victor Constancio, ha sottolineato che è possibile aumentare il Qe. I volumi del programma di acquisto di bond della Bce sono infatti ancora lontani da quelli di altre banche centrali e «c’è margine di manovra, se necessario». L’ammontare totale di titoli acquistati nell’ambito del programma di Qe, ha detto il vice di Mario Draghi, «rappresenta il 5,3% del pil della zona euro. La Fed ha invece acquistato l’equivalente del 25% del pil americano, la Banca del Giappone il 64% e la Banca d’Inghilterra il 21%». Constancio ha quindi ribadito che si potrebbe intervenire sul ritmo degli acquisti e sulla durata dell’operazione. L’obiettivo è spingere le prospettive di inflazione a livelli più accettabili, lontani dalla zona pericolo della deflazione. Attualmente il tasso d’inflazione è allo 0,1% a fronte dell’obiettivo della Bce che lo vuole inferiore, ma vicino, al 2%. «Abbiamo ritenuto che fosse importante ricordare a tutti quello che abbiamo detto fin dall’inizio: che manterremo la nostra politica fin quando avremo raggiunto i risultati voluti», ha sottolineato Constancio. Il vice presidente della Bce parla di inflazione, ma probabilmente lo preoccupa di più il livello dell’euro. Il precipitare della crisi dei Paesi emergenti come conseguenza del rialzo dei tassi Usa, infatti, porterebbe a un rafforzamento dell’euro, considerato un rifugio sicuro. E poi dicono che non c’è la guerra delle valute. (riproduzione riservata)