Pagina a cura di Luigi dell’Olio 

 

Per le imprese italiane presenti in Cina e per quelle che stanno programmando investimenti nel gigante asiatico cambia poco o forse nulla. Le tensioni che stanno caratterizzando le borse del paese e i timori di un rallentamento della crescita non distolgono l’interesse verso un mercato che, in ogni caso, è di gran lunga più dinamico del Vecchio continente e che si prepara ad accelerare sul fronte dei consumi interni.

La pensano così gli addetti ai lavori interpellati da ItaliaOggi Sette.

 

Rassicurazioni istituzionali. Secondo il direttore generale dell’Ice, Roberto Luongo, le svalutazioni dello yuan decise da Pechino, anche se comportano ripercussioni negative per chi esporta «a causa dei prezzi che diventano più alti», risultano «assorbibili». Luongo non appare preoccupato per le aziende del lusso, che nelle ultime settimane hanno subito una brusca frenata in borsa, ricordando che la valuta cinese ha perso solo il 4,65%, una quota che ha un impatto limitato sugli acquisti. «Una borsa da 1.500 dollari potrebbe venire a costare circa 60-70 dollari in più: non credo che possa rappresentare un problema per gli eventuali acquirenti di questi prodotti», è la sua convinzione.

 

Cresce la fame di know-how italiano. Gli operatori interpellati da ItaliaOggi Sette confermano questa analisi. Emblematica l’esperienza di Cube Labs, che si propone come piattaforma di partecipazione e trasferimento tecnologico dell’innovazione italiana nei grandi mercati, a cominciare proprio dal Dragone. In un anno di attività ha aggregato una settantina di piccole e medie imprese della Penisola, che si stanno introducendo in Cina. «Per trasformare l’innovazione in impresa, queste realtà hanno bisogno di uscire dai confini del nostro paese, avendo compreso che il valore dei brevetti risiede nella commercializzazione e utilizzo, piuttosto che nella protezione», spiega il presidente Filippo Sturace. La Cina intende passare dalla produzione di beni a basso costo, per l’esportazione, a beni ad alta densità innovativa per il mercato interno. Per questo, Pechino sta implementando ambiziosi piani di riforme, che investiranno in particolare i comparti del welfare e della salute. «Gli investitori cinesi, pubblici e privati, guardano dunque con interesse alla possibilità di acquisire tecnologie e know how, che l’industria domestica non è oggi in grado di sviluppare», aggiunge Sturace. «In questo quadro, le Pmi italiane potranno spendere un enorme vantaggio competitivo, a patto di presentarsi con una massa critica adeguata e con gli strumenti per decodificare la complessità regolatoria e di interlocuzione che caratterizza il mercato cinese».

 

Focus sulla classe media. Nei primi sei mesi dell’anno l’export italiano verso la Cina è cresciuto di un modesto 0,8%, contro il 5% complessivo, con profonde differenze: hanno frenato beni di investimento, dalla meccanica strumentale ai mezzi di trasporto, che pure in termini assoluti restano il primo comparto, mentre sono cresciuti sensibilmente alimentare (+30%) e moda (+15%). Tuttavia le stime di medio periodo tendono a migliorare. «La Cina è un mercato importante e tale rimarrà», assicura Alessandro Terzulli, capo economista di Sace. «Per chi lo presidia, non solo con l’export, ma anche attraverso postazioni locali, questa situazione potrebbe addirittura aprire occasioni favorevoli. Con la svalutazione e la domanda che rallenta si può pensare a una strategia più attiva». Del resto è difficile immaginare che si possa conquistare un mercato così complesso limitandosi a spedire le merci. Ci deve essere una presenza fissa, possibilmente anche con partner commerciali locali che aiutino a far da tramite con le autorità del posto. «Per chi già c’è, lasciare ora sarebbe un errore: è il momento di rafforzare la strategia», è la convinzione di Terzulli.

Del resto, il rallentamento della crescita è fisiologico per un’economia cresciuta a ritmi così tumultuosi nell’ultimo decennio e una contrazione dei mercati finanziari può aiutare a smaltire le bolle speculative che si sono formate negli scorsi anni. Resta comunque una stima di crescita intorno al 5-6% per l’anno in corso, con un’accelerazione dal 2016 in avanti. Un ritmo da far invidia all’Eurozona, che dovrebbe registrare nel 2015 un incremento del pil limitato all’1,4% (+0,7% per l’Italia), nonostante gli sforzi messi in campo dalla Bce. Per Stefano Salvadeo, partner di Grant Thornton, ci vorrà del tempo per comprendere la portata reale di quanto sta accadendo. «Le svalutazioni operate dalle autorità di Pechino comportano uno svantaggio per chi esporta materie in Cina, anche se le imprese che esportano prodotti ad alto valore aggiunto o di elevato valore dovrebbero riuscire a riassorbire queste svalutazioni. Per le imprese che invece hanno delocalizzato nel paese, molto dipenderà da come, nei prossimi mesi, reagirà l’economia reale».

 

Crescono le insolvenze. Di sicuro nel breve periodo occorrerà fare i conti con qualche turbolenza. L’ultima analisi di Euler Hermes segnala che i fallimenti in Cina dovrebbero crescere dell’8% nel 2015 (per un totale di 3 mila casi circa), a causa del giro di vite imposte dalle autorità locali allo shadow banking, vale a dire le attività di intermediazione finanziaria esterne al sistema regolamentato delle banche: un fenomeno diffuso anche nel resto del mondo, ma che nel gigante asiatico ha raggiunto dimensioni allarmanti per le difficoltà di accesso al credito bancario da parte delle pmi. L’obiettivo di Pechino è avvicinare il paese agli standard occidentali, ma nel breve periodo questo potrebbe spingere alcune aziende a ritardare i pagamenti ai fornitori o a chiedere dilazioni ai loro partner commerciali.

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