A nove mesi dall’entrata in vigore del decreto ministeriale 166/2014 che ha modificato la disciplina degli investimenti dei fondi pensione, gli operatori italiani non sembrano aver accolto la sfida del regolatore alla conquista di una maggiore autonomia gestionale. «L’atteggiamento prevalente è conservativo», chiosa Alessandra Pasquoni, responsabile per l’Italia dell’Investment Consulting di Towers Watson, «molti fondi non hanno ancora ridisegnato l’asset allocation in modo da sfruttare la maggiore libertà d’azione consentita dal decreto rispetto al precedente quadro normativo.
Non si sono attrezzati per ridefinire i propri obiettivi d’investimento in una logica di controllo del rischio e non hanno predisposto un nuovo assetto organizzativo adeguato allo scopo».
Per conformarsi alle nuove regole gli operatori italiani hanno tempo fino al 28 maggio 2016. Entro quella data i fondi pensione devono verificare i criteri e gli strumenti con cui attuano la propria politica e strategia di investimento, a loro volta definite sulla base delle esigenze previdenziali degli associati. Secondo quanto dispone il decreto ministeriale, per esempio, potranno essere esposti a valute estere nella misura massima del 30% (in precedenza era il 67%) ma sono autorizzati a investire fino al 30% delle proprie disponibilità in strumenti non negoziati sui mercati regolamentati e in fondi d’investimento alternativo (i fondi armonizzati e i depositi bancari sono considerati al pari di strumenti quotati). La soglia massima prevista per l’acquisto dei fondi alternativi è del 20% mentre il limite d’investimento per gli strumenti finanziari connessi alle merci è del 5%.
«Entro quest’anno, inoltre», ricorda Pasquoni, «i fondi pensione dovranno aggiornare il documento sul processo di attuazione della politica di gestione, che include l’analisi dei conflitti d’interesse, e hanno pochi mesi di tempo per adeguarsi: la scadenza è fine dicembre».
L’opportunità di modificare l’asset allocation è dettata non solo dal provvedimento del legislatore ma anche dallo scenario di mercato. «Il rischio implicito di un portafoglio troppo esposto al reddito fisso appare molto elevato dati i bassi rendimenti ottenibili in questa fase», osserva la responsabile per l’Italia dell’Investment Consulting di Towers Watson, «molti operatori dovrebbero valutare una maggiore diversificazione anche a favore di strumenti alternativi, se coerenti con gli obiettivi del fondo e con la governance interna». Più in generale, da più fronti si evidenzia la necessità di un cambio di rotta nelle politiche di gestione dei fondi pensione. A questo proposito, è utile richiamare il discorso pronunciato l’11 maggio dal presidente della Consob, Giuseppe Vegas, in occasione dell’incontro annuale con il mercato finanziario: «In Italia il ruolo svolto nei mercati azionari dai fondi pensione risulta ancora troppo limitato. Secondo i più recenti dati Ocse, l’investimento dei fondi pensione italiani in azioni è pari al 20% circa del totale degli investimenti, a fronte di una media prossima al 40% nei Paesi Ocsee e al 50% negli Stati Uniti».
Non bisogna però dimenticare il tema dei costi che rappresentano l’altra sfida importante per i gestori dei fondi pensione. Un aspetto essenziale soprattutto in una fase di mini-rendimenti. «Grazie all’utilizzo di strumenti smart beta si possono implementare strategie alternative a costi relativamente contenuti e con livelli soddisfacenti di liquidità». Presto anche gli enti di previdenza privatizzati dovranno fare i conti con un nuovo quadro normativo. Il 14 novembre scorso, il ministero dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato una bozza di regolamento, sottoposto alla consultazione degli operatori del mercato, che si ispira a principi simili a quelli indicati dal decreto 166/2014. «Tra le varie indicazioni, si sa che questi enti dovranno ridurre significativamente l’investimento nel mercato immobiliare. Avranno comunque più tempo per adeguarsi», conclude Pasquoni. (riproduzione riservata)