Andrea Greco
L a Mediobanca holding, superfetazione di quote incrociate e poco liquide messe in croce dal calo dei listini, chiude ingloriosamente. S’avanza la merchant “leggera”, che punta su marchio e know how per raccogliere bene e impiegare meglio in un contesto sfidante. La fresca pulizia di bilancio è l’eutanasia di uno dei tre mestieri dell’istituto, quello che in tempi moderni s’è rivelato più delicato e critico, tanto da causare la prima perdita netta dalla fondazione (1946). I dati ufficiali sono perentori: proprio mentre cominciavano gli anni difficili sui mercati – dal crac Lehman dell’autunno 2008 – Mediobanca s’è fatta sorprendere carica di azioni, poco vendibili per il carattere strategico e i vincoli a patti parasociali. N e è seguita una teoria di svalutazioni (1.639 milioni per l’intero portafoglio equity nel quinquennio), appena mitigate da utili o dividendi che quei titoli intanto fruttavano (554 milioni). Il saldo, come si vede in tabella, è negativo per 1.085 milioni. Ogni azionista di Mediobanca, specie gli istituzionali, potrebbe lapidariamente concludere qui la disamina sui cattivi affari portati dall’attività di cassaforte, avviata per inserirsi nel network del capitalismo italiano quando Cuccia era un giovinetto, e rafforzata negli anni ‘70 con le crisi dell’industria privata e ‘90 con le privatizzazioni. Il termometro della Borsa lo misura impietoso: da quando i massimi di 17,68 euro del marzo 2006 sono diventati i 5,30 euro d’oggi, pari
a una capitalizzazione di 4,4 miliardi che neppure copre i 4,7 miliardi dei pacchetti azionari, e ignora le attività bancarie. Tuttavia Mediobanca non è una holding. Nella sua storia breve e densa è stata rappresentata come ircocervo, centauro e più; certo non è stata holding nel senso moderno del termine, in cui ammi-nistratori gestori investono il patrimonio con ottiche di diversificazione, neutralità sui cicli e rendimento. Mediobanca non ha mai pensato a essere holding: più articolatamente, ha affiancato negli anni ai mestieri originari di credito industriale e merchant un servizio “sartoriale” in più: la partecipazione al capitale dei clienti, spesso insufficiente. Tale approccio ha portato nei decenni a concentrare gli investimenti sul giardinetto, con esposizione all’equity crescente e circolare sulle poche società al contempo debitrici e azioniste della maison. L’ultima crisi ha fustigato questa impostazione, che oggi non ha senso né tecnica, e fa somigliare Mediobanca a un fondo long onlyad alta concentrazione di rischi, cui pochi gestori ambirebbero. Per questo è meglio ripescare la definizione di Cuccia, di “banca di partecipazioni”. Il fondatore, poco amante degli investimenti immobiliari, investiva le riserve in titoli di società conosciute e redditizie che potessero garantirgli entrate quando le altre attività frenavano. Le prime tracce di questa attività risalgono a metà anni ‘50 con l’acquisizione di piccole quote di Generali (da soci privati, su intercessione di Mattioli) e Fondiaria. Seguì Bastogi, la “gallina dalle uova di pietra”, che era il salotto buono del tempo e in cui Cuccia voleva entrare. Nel ‘63 venne Olivetti, per il salvataggio da lui orchestrato; quella stessa “partecipazione di cortesia”, difesa con successive ricapitalizzazioni, è il nucleo della quota in Telecom che conta per circa metà delle perdite attuali. Il salto di qualità fu negli anni ‘70 con gli interventi in Pirelli, Orlando e Fiat, e negli ’80, con l’investimento in Gemina, ‘scatola’ per privatizzare Montedison, e futuro epicentro delle perdite sui rateali Fabbri, rifilato dagli Agnelli via Rcs. «Fu un colpo duro per la rispettabilità di Mediobanca, non era pensabile che Cuccia si facesse buggerare a quel modo – racconta un vecchio banchiere – Da allora l’istituto perse il ruolo di capotavola: diventò uno tra i commensali del salotto buono». Gli anni ’90 rappresentano il salto dimensionale, targato Generali: Maranghi, temendo ipotetiche scalate, prima raddoppiò poi triplicò il peso a Trieste; e il meccanismo per cui Mediobanca anticipava la sottoscrizione dell’aumento, girando via via i titoli agli azionisti, ha permesso di mediarne il prezzo di carico: altrimenti anche la futura discesa dal 13,24% al 10% circa nel Leone lascerebbe ferite nel conto economico. Proprio la controscalata delle ex Bin a Generali porterà all’uscita di Maranghi: troppo improvvisa perché i successori Alberto Nagel e Renato Pagliaro potessero prontamente effettuare quell’alleggerimento sull’equity che hanno predicato per anni. I due manager sono al comando dal 2003, e benché nel periodo abbiano ceduto 3 miliardi di euro di equity, le quote critiche restano in cassaforte: e il recente trasferimento allo slot Afs, dove sono allineate ai prezzi di Borsa per cederle, è costato 320 milioni per Telco, 45 per Burgo, 38 per Rcs, 33 per Sintonia, 25 per Santè, 51 per altre. «The terrible slide», ha detto l’ad illustrando l’elenco agli investitori, e facendo con alcuni parziale autocritica per non aver potuto fare meglio, soprattutto fare prima. Un attenuante invocata dai “giovani” dirigenti è che fino al 2011, quando nel comitato nomine Mediobanca i manager hanno preso il sopravvento sui soci, non c’era una governance adeguata a mandare in soffitta il salotto. «Geronzi gli ha fatto perdere tre anni», è il modo con cui un socio privato di Generali scolpisce il concetto. Il presidente romano di Mediobanca tra 2007 e 2010, era fautore massimo del capitalismo relazionale, sugli intrecci basato. Di fatto, la dialettica complessa tra soci e manager della penultima Mediobanca ha prodotto scelte inadeguate sulle società in condominio: il decennio perduto delle Generali di Perissinotto, la crisi strategico-finanziaria di Rcs e Telco sono prove che oggi perfino Nagel & C. Con responsabilità mai chiare e decisioni collegiali e di compromesso, s’è rivelato impossibile gestire con efficacia i veloci paradigmi tecnologicoindustriali di quelle imprese. Il bilancio della “Mediobanca di partecipazioni”, però, non si esaurisce nel miliardo di perdite quinquennali. La funzione di schermo e difesa – dal mercato ieri, dalla politica l’altro ieri – attivata da Cuccia e Maranghi, la quantità di mandati o prestiti accesi con centinaia di parti correlate, sono altri fattori di peso, benché intangibili. Ma agli investitori interessa solo voltare pagina, come mostrano il rialzo del titolo dopo il repulisti, e i giudizi dei broker: Citi, Kepler, Ubs, Kbw, Intermonte, Imi, hanno ritoccato all’insù prezzi obiettivo e stime di utili, incoraggiati dalla ripresa del margine di interesse tra aprile e giugno. Per loro, e ormai per tutti, la holding è solo un accrocchio da smontare, e senza altre perdite.