Marco Panara
Molte facce nuove al vertice della finanza italiana. In pochi mesi Mario Greco ha sostituito Giovanni Perissinotto alle Generali, Salini ha tolto a Gavio la gestione di Impregilo, mentre i Ligresti sono usciti di scena lasciando a Cimbri, amministratore delegato di Unipol, la guida di Fonsai. Ma il terremoto non è finito, dopo le battaglie di primavera si è già aperta una nuova stagione che ha al centro il confronto fra Marco Tronchetti e la famiglia Malacalza per il controllo del gruppo Pirelli, è partita la ristrutturazione di Rcs e traballano i vertici stessi di Mediobanca, usciti vincitori ma provati dalla fusione Unipol-Fonsai, i cui strascichi giudiziari indeboliscono l’amministratore delegato Alberto Nagel. Tutto ciò mentre si avvia una nuova fase, con la diminuzione della percezione del rischio Italia e la ripresa della Borsa che, se da un lato fa lievitare le azioni assai depresse dei campioni nazionali della finanza, dall’altra li espone agli appetiti di grandi investitori internazionali forse ora meno spaventati dalla crisi dell’euro e del paese. alle pagine 2, 3, 4 e 5 con servizi di Adriano Bonafede e Paolo Possamai L’intreccio delle partecipazioni intorno a Mediobanca coinvolge tutti i big della finanza italiana, da Generali a Unicredit, da Telco a Pirelli, da Unipol a Rcs
Roma San Mario da Francoforte ha salvato l’estate e, se la Corte Costituzionale tedesca non metterà i bastoni tra le ruote, anche l’autunno. Per l’inverno si vedrà,
ma intanto quello che conta è che in agosto le capitalizzazioni invece del temuto ennesimo crollo hanno avuto vistosi recuperi che continuano con vigore in settembre. I prezzi bassissimi e sempre calanti facevano imbestialire gli azionisti e traballare le poltrone dei manager. Una, quella dell’amministratore delegato delle Generali Giovanni Perissinotto, è caduta. E facevano temere lo shopping a prezzi di super saldo da investitori europei, americani o asiatici. Ora che i prezzi salgono però, forse le cose si fanno ancora più complicate, perché la ragione che li fa salire è la più bassa percezione del rischio euro e del rischio Italia, la diminuzione degli spread e la rivalutazione dei Btp in portafoglio alle banche e alle assicurazioni. Senonché quel rischio euro e quel rischio Italia è ciò che ha tenuto lontani coloro che avrebbero potuto con pochi miliardi portarsi a casa Unicredit, Mediobanca o Generali, che ora che quel rischio sembra affievolirsi potrebbero riavvicinarsi, mentre il recupero delle quotazioni di queste settimane non è ancora sufficiente a far considerare i grandi gruppi italiani fuori dal periodo dei saldi. Quello che potrebbe accadere è che il recupero di valore di Unicredit, Generali, Mediobanca, Intesa San Paolo e via elencando, dopo quattro anni di terribili crolli, possa risalire assai più lentamente della riduzione, che tutti ci auguriamo rapida, della percezione del rischio Italia. E se il rischio Italia scende mentre le capitalizzazioni salgono più lentamente si apre uno spazio in cui sarà possibile fare nel nostro paese ancora ottimi acquisti a prezzi assai convenienti. I pezzi più delicati sono i soliti, Intesa San Paolo, Unicredit, Mediobanca, Generali, il cuore del sistema finanziario italiano. Di questi Intesa San Paolo è quella che rischia meno, perché le fondazioni sue azioniste benché non legate da un patto di sindacato possiedono tutte insieme oltre il 30 per cento del capitale. Mediobanca invece un patto di sindacato ce l’ha, ed anche quantitativamente robusto visto che supera ampiamente il 40 per cento del capitale, ma il problema è che se è robusto nei numeri non lo è altrettanto nella sostanza, poiché gli interessi dei partecipanti non sono omogenei e di fronte a offerte premianti la coesione potrebbe essere tutt’altro che scontata. I più esposti tuttavia sono Unicredit e Generali, che per la loro struttura veramente multinazionale, nell’ottica di un potenziale compratore sono anche i pezzi più pregiati. In Unicredit le fondazioni arrivano sì e no al 13 per cento del capitale e i soci privati italiani stabili al 4 per cento, poi ci sono i fondi sovrani, che sono soci stabili ma non legati necessariamente all’italianità della gestione e del management. Generali ha come azionista di riferimento Mediobanca con il 14 per cento circa e altri soci stabili per arrivare al 25 per cento circa. Ma di questo 25 per cento già si sa che un terzo è ballerino, perché Mediobanca ridurrà (per gli effetti delle regole di Basilea III) la sua partecipazione sotto il 10, perché la Banca d’Italia, che ha il 4,5 per cento, assumendo nei prossimi mesi anche la vigilanza sulle assicurazioni dovrà trovare il modo di evitare il conflitto di interessi, e infine perché c’è un altro 1 per cento in Fonsai che dovrà essere dismesso. Ecco quindi una delle due ragioni per le quali i soldi sono diventati improvvisamente importanti. Si guarda con cupida attenzione al mezzo miliardo che Del Vecchio ha incassato cedendo un pacchettino delle sue azioni Luxottica, sperando che decida di aumentare le sue quote in Generali e Unicredit. Si guarda alle mosse di Della Valle, che è fuori dal coro, ma è un imprenditore tanto stimato quanto liquido. Si guarda a Caltagirone e a quanti altri potrebbero rimpolpare l’azionariato italiano stabile di Generali e Unicredit. Ma questa, che pure è la partita più determinante di tutte, perché l’Italia senza Generali e Unicredit sarebbe un’altra cosa, non è l’unica in cui in questa stagione i soldi contino come non mai. Ovviamente hanno sempre contato, nella vita delle persone, delle famiglie e delle imprese come nella finanza, ma veniamo da una lunghissima fase nella quale il famoso ‘capitalismo senza capitali’ all’italiana è riuscito a conservare un suo immobile equilibrio salottiero in cui le relazioni riuscivano a bilanciare l’assenza di soldi investiti nel controllo delle aziende, che si riuscivano a controllare con poche lire (poi pochi euro) e molti amici. Quel tempo è stato consumato dalla crisi e anche le amicizie cominciano a incrinarsi. La caduta di Ligresti è stata ritardata da una protezione di sistema che copriva la mala gestione di Fonsai e determinata dalla sua incapacità di ricapitalizzare le sue aziende, mentre ora il conflitto tra Tronchetti e Malacalza nella catena di controllo della Pirelli nasce dalla necessità di ripagare i debiti e dal modo in cui farlo, se mettendo capitale o sostituire debito vecchio con debito nuovo. Lo scenario della finanza italiana è già mutato profondamente. Per il momento si vede dalle facce. Ghizzoni al posto di Profumo in Unicredit, Cucchiani al posto di Passera in Intesa San Paolo e, negli ultimi mesi, Mario Greco al posto di Perissinotto alle Generali, Scott Jovane al posto di Perricone in Rcs, Salini al posto di Gavio alla guida di Impregilo, Cimbri al posto dei Ligresti a quella di Fonsai. Cambi di management, in qualche caso di proprietà. E ogni cambio porta con se effetti profondi, nei fornitori e nei consulenti, nelle relazioni, nelle reti di potere, nelle strategie. La galassia già non è più la stessa, per la forza delle cose e anche per l’azione di Mediobanca che, come il suo amministratore delegato Alberto Nagel rivendica, ha dato la scossa definitiva all’impero Ligresti e ha voluto il cambi di guardia il Generali ed Rcs. Mentre ha subito il passaggio in Impregilo e sta tentando di evitare che succeda lo stesso in Pirelli. Ora però, l’ultimo tassello è proprio Mediobanca stessa, che si trova nel mezzo di un difficile guado. La partita Fonsai, difficilissima, è in porto, ma con un quarto degli aumenti di capitale che è ancora da collocare e con degli strascichi giudiziari e reputazionali per lo stesso Nagel, che firmò una carta di impegni con Ligresti senza renderla nota alle autorità di vigilanza (profilo giudiziario della vicenda) ma anche senza darle seguito (profilo reputazionale del banchiere). Oltre ai seguiti Fonsai ci sono il portafoglio crediti, che in questa Italia in crisi ormai da troppi anni ha parecchie rigidità e il portafoglio partecipazioni da ridimensionare, con la stabilità di Generali da salvaguardare, la possibilità di nuovo capitale necessario in Rcs e il nodo Telco per il quale non si vede una soluzione. E’ un guado difficile in tempi difficili, Nagel lo affronta con meno autonomia strategica rispetto al passato e gli occhi degli azionisti addosso. La sua poltrona non è più scontata, se la dovrà riconquistare. Nella foto qui sotto, da sinistra a destra, l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel e il suo presidente, Renato Pagliaro La banca di Piazzetta Cuccia si trova nel mezzo di un difficile guado