Vittoria Puledda
Duecentotrenta euro non sono molti. Anzi, sono pochi in assoluto e diventano pochissimi se servono a prenotare grosso modo il 30% di Fonsai. Eppure è esattamente quello che è successo, la settimana scorsa, quando in una sola seduta sono andati esauriti quasi tutti i diritti messi all’asta in Borsa. Il punto è che comprare i diritti (anche quando comprare è un eufemismo, perché non costano niente) non equivale necessariamente ad esercitarli, cioè a convertirli in azioni (tra l’altro, questa possibilità è stata messa in conto dalle stesse banche del consorzio di collocamento, pronte a farsi carico di una quota non irrilevante di inoptato). E qui arriva l’ennesimo paradosso di questo aumento di capitale che ha tanti punti “impropri”, a partire dall’entità dell’aumento stesso rispetto alla capitalizzazione di Borsa prima delle sottoscrizioni. Ma il discorso vale in generale: il fatto che basti una manciata di euro per sottoscrivere un’opzione (non un obbligo) a sottoscrivere azioni di nuovo conio – anche per quote rilevanti – può tradursi in un forte effetto distorsivo. Chiunque infatti può avere la tentazione di comprare i diritti e poi decidere cosa fare a seconda di come va il mercato. O, peggior cosa, può essere tentato di comprare i diritti al solo scopo di toglierli di mezzo, così da far accollare alla banche un inoptato molto forte (e impedire che altri soggetti comprino i medesimi diritti). Forse, qualche paletto legislativo in più non guasterebbe.